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Riforme costituzionali, ecco perché il presidenzialismo migliorerà l'Italia

Francesco Carella
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Se un tema attraversa l'intera storia della Repubblica, divenendo centrale nel dibattito pubblico ogni qualvolta si acuisce la crisi del sistema politico, non può essere considerato, come continua a fare la sinistra, un pericolo per la democrazia del nostro Paese. È il caso del presidenzialismo, già presente, seppure in forma minoritaria, nella discussione in sede di Assemblea costituente e rilanciato negli ultimi giorni per mezzo del programma elettorale dal centrodestra. 

 

 

Partiamo da una constatazione di fatto: l'Italia, dall'Unità ad oggi, ha sempre avuto governi instabili tranne, ovviamente, che nel Ventennio. Il nostro Paese non ha mai fatto "esperienza di governi democratici forti" a differenza di quanto è accaduto e continua ad accadere nelle più solide democrazie occidentali. Se avessimo una classe politica più attenta alle dinamiche di lungo periodo si potrebbe cogliere l'occasione del rilancio dell'argomento per riflettere intorno alle ragioni storiche che hanno favorito un assetto del nostro sistema sotto forma di democrazia parlamentare, collocando il presidenzialismo fra i grandi tabù della Repubblica.

A partire dall'aprile 1945 fu subito evidente che il destino istituzionale dell'Italia sarebbe dipeso fortemente dal clima politico maturato all'indomani del Secondo conflitto mondiale. Infatti, ad escludere che potessero nascere istituzioni forti furono in primo luogo gli anglo-americani (il tema, secondo le ultime ricerche, risulta essere stato al centro di molte discussioni tra le potenze vincitrici fin dall'inizio del 1944) nel timore che si potesse ripetere, in tal modo, l'esperienza del fascismo. Una simile impostazione, comunque, incontrava le esigenze delle famiglie politiche protagoniste dell'Assemblea costituente segnate da una elevata inconciliabilità politico-ideologica e da un alto tasso di reciproca sfiducia. In altre parole, si diede vita a un sistema di democrazia parlamentare ad "alta garanzia reciproca" come venne definito dagli stessi protagonisti poiché assicurava che mai si sarebbero potuto formare né maggioranze stabili né efficaci strutture di comando. Si pensi solo agli scarsi poteri che la Costituzione prevede per il presidente del Consiglio, il quale non ha la possibilità di "licenziare" nemmeno un ministro che si riveli essere non omogeneo all'indirizzo politico del governo.

 

 

Queste in sintesi le cause di ordine storico che hanno portato l'Italia ad avere una democrazia parlamentare debole. Tali ragioni sono in larga parte venute meno. Ora è arrivato il momento di prendere atto che alcuni passaggi della nostra Carta siano da rivedere a partire dalla constatazione che «la parte sul governo e sui rapporti governo-parlamento è una delle meno accurate e dettagliate della Costituzione come ha osservato il professore Augusto Barbera quasi come non si reputasse in fondo utile né tanto meno necessario vincolare a una precisa disciplina la nascita, la vita e la morte di un esecutivo». In tal senso, una riforma che punti all'elezione diretta del capo dello Stato sarebbe un primo grande segnale di cambiamento. Ignorare tutto ciò significa optare per un sistema che continui a garantire ai partiti una nicchia di potere a discapito della governabilità e dell'interesse del Paese. Eppure, coloro che gridano al pericolo fascista dovrebbero sapere che i governi deboli hanno contribuito non poco alle degenerazioni totalitarie del Novecento.

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