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Il bilancio di Obama: luci (una) e ombre (tante)

Il 2011 di Barack: dopo le elezioni di medio termine anche i sondaggi bocciano il presidente

Andrea Tempestini
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  Il bilancio di Obama per il 2011 è fatto di luci (una) e ombre (tante). Non lo dico io ma l'ultimo sondaggio Rasmussen di ieri, dove in un testa a testa con Mitt Romney, il candidato del Gop più probabile e più temuto dalla Casa Bianca, viene accreditato del 39% dei voti nazionali contro il 45% per l'avversario. Evidentemente, il giudizio complessivo degli americani verso il presidente nel corso dell'anno non si è di molto discostato dalla solenne bocciatura che gli elettori gli hanno inflitto indirettamente nelle urne del medio termine nel novembre 2010, quando hanno dimezzato il potere dei democratici in Congresso, dando il controllo della Camera ai Repubblicani. Anzi è peggiorato. Se tra i successi Obama può vantare la eliminazione di Osama Bin Laden in maggio, di sicuro il degrado del rating del debito americano da parte di Standard & Poor's, che ha tolto le tre A  a Washinghton lasciandole  a Parigi e a Berlino malgrado l'Annus Horribilis dell'euro, è qualcosa di storicamente negativo sul piano della immagine del Paese che ha lasciato il segno nell'opinione pubblica. Poi ci sono le cifre dell'economia interna. Da quasi tre anni il tasso di disoccupazione è sopra l'8,6%, e gli statistici ricordano che nessuno è stato rieletto presidente con oltre il 7,2% di disoccupati. Il PIL è appena sopra il livello che serve a non ricadere nella recessione, che è ufficialmente finita nel giugno del 2009 ma non si è tradotta in una crescita seria, evidentemente per la inefficacia delle politiche di spesa pubblica,  di deficit senza freni, di tasse e di iperregolamentazioni introdotte con le riforme della finanza e della sanità. Quest'ultima legge, a proposito, è giudicata male da una maggioranza assoluta di americani più ampia oggi di quando era passata in Parlamento. Ma è l'evoluzione, o meglio l'involuzione politica di Obama nel 2011, il fattore che più lo ha caratterizzato, e lo consegna alle sfide del 2012 con un bagaglio inatteso 12 mesi fa. Allora la previsione dei commentatori, soprattutto tra quelli che simpatizzavano per lui da posizioni moderate, centriste e indipendenti, era che avremmo conosciuto un Barack pragmatico, bipartisan, intelligentemente seguace di quel Bill Clinton che sfruttò la sconfitta del medio termine per trasformarsi in leader “non ideologico” del Paese. Cioè capace di fare accordi con il GOP su come tagliare deficit e welfare clientelare e insostenibile, pratico ed efficace nel far crescere l'economia. Tutta una illusione. L'agenda di Obama si è invece via via incanalata nel solco di un populismo rivolto solo al suo elettorato di sinistra. Incapace di vedere il mondo delle imprese e del business centrale per la ripresa, statalista, liberal tassa & spendi, fedele alla sua ideologia sinceramente di sinistra, radicale come le sue amicizie di una vita a Chicago (dal bombarolo Bill Ayers, fondatore del gruppo Weather Underground che compì atti di terrorismo  a Jeremiah Wright, il pastore anti-bianchi, anti-Usa e antisemita che ha officiato le sue nozze e battezzato le sue figlie), Obama ha calcolato di non poter realisticamente sfondare al centro. Così ha lanciato la sua crociata classista contro i ricchi, attaccando i “milionari e miliardari”, che per lui sono quelli con un reddito sopra 200mila dollari. Si è persino accodato agli indignati di Occupy Wall Street, ai quali ha offerto sostegno. Piace insomma sempre più ai sinistri, e spera che gli bastino. Ma l'America, preferendo l'ex imprenditore di successo Romney, gli sta dicendo di cambiare registro se non vuol fare la fine di Carter. di Glauco Maggi Twitter@glaucomaggi  

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