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Monti ci sfotte: taglierò le tasse

Il premier accusa il Parlamento di non averlo lasciato lavorare. E sulle imposte annuncia una riduzione ma non spiega come la finanzia

Lucia Esposito
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Franco Bechis Non lo hanno lasciato lavorare. Mario Monti prende a prestito una delle lagne più classiche di Silvio Berlusconi, e usa il sito della presidenza del Consiglio dei ministri per farsi un po' di campagna elettorale. È lì che ha inserito 12 schede, una corposa introduzione e una cinquantina di pagine per spiegare il gran lavoro fatto dal suo governo. E soprattutto quello (gran parte) che non  gli hanno lasciato fare. La colpa? Sempre del Parlamento, che ha le sue lungaggini, che da un anno gli cambia sempre tutto quel che il Professore aveva ideato in maniera congeniale e più volte ha votato emendamenti che lui ha dovuto ingollare. Per questo invece di essere un sobrio elenco del lavoro fatto da premier e ministri nell'ultimo anno, questa sorta di bilancio di Monti si trasforma in un capitolo aggiuntivo della sua agenda, in un vero e proprio programma politico aggiuntivo diffuso utilizzando le armi improprie della comunicazione istituzionale. È  quel che avviene - ad esempio - sul fisco.  Nell'introduzione alle schede sul lavoro fatto Monti inizia così: «L'obiettivo è di ridurre di un punto e progressivamente la pressione fiscale, iniziando dalle aliquote più basse per dare respiro soprattutto alle fasce più deboli». Una buccia di banana, perché un governo che andandosene racconta con sobrietà le cose fatte, non indica obiettivi futuri: quelli sono propri di un programma politico, e non è Palazzo Chigi il luogo dove esporlo. Per altro l'idea di ridurre di un punto l'aliquota Irpef sui redditi più bassi era già venuta a Monti con la legge di stabilità. E infatti aveva inserito quella norma nel testo uscito nel cuore della notte dal consiglio dei ministri. Poi s'è scoperto che per finanziare quella riduzione fiscale, Monti aveva tagliato con la scure detrazioni e deduzioni fiscali, e per i contribuenti il danno subito sarebbe stato assai più rilevante del vantaggio proposto. Con saggezza i parlamentari hanno fatto saltare con i loro emendamenti la sciocchezza. Ma il premier deve avere la testa dura ed è lì a riproporla. Naturalmente senza dire come finanziarla, nella peggiore delle tradizioni dei partiti durante le campagne elettorali. Fa capire che qualche risorsa avrebbe potuto essere trovata con la delega fiscale e la riforma del catasto, due grandi idee che però non ha potuto fare diventare legge, perché il solito Parlamento cattivissimo gli si è messo di traverso. Il tema è proprio quello: Monti per governare avrebbe voluto tanti Montini alla Camera e in Senato, in modo che nessuno potesse contestare una sua norma di legge o una riforma immaginata perfetta e quindi immodificabile. Che il Parlamento così come non sia andato giù al governo dei professori, si comprende bene dalla scheda sul lavoro fatto compilata da Dino Piero Giarda, che appunto è ministro per i rapporti con il Parlamento. Prima cosa: le Camere sono lente a prendere decisioni: così «spesso il governo, per accelerare i tempi di approvazione, ha fatto ricorso al voto di fiducia che è stata posta su 15 decreti e 4 disegni di legge». Seconda cosa: i parlamentari sono sempre lì a fare domande che fanno perdere tempo all'esecutivo: 317 interrogazioni a risposta immediata alla Camera e 18 al Senato. E poi, che cavolo di domande! «Da segnalare», si lamenta Giarda, «anche il carattere a volte troppo tecnico delle domande dei parlamentari, che non corrispondono alla logica politica dell'istituto». Domande tecniche a ministri di un governo tecnico? Devono essere proprio pazzi questi parlamentari! E poi, questi rappresentanti di partito, sono verbosi. Pensate che le nuove leggi varate da Monti e pubblicate in  Gazzetta ufficiale sono uscite da Palazzo Chigi con solo 343.501 parole. Poi sono arrivate in Parlamento e alla fine quelle pubblicate avevano 517.771 parole! I vari partiti invece di bersi il verbo di Monti lo hanno corretto aggiungendoci ben 174.270 parole. Meno male che c'è Giarda che le ha contate! E a forza di contare il ministro si è un po' intorcigliato, perché purtroppo ha contato anche il poco o nulla che il suo esecutivo ha fatto in tema di riforme. Un esempio che atterrisce? Eccolo: «Le 8 leggi di riforma prevedono 469 provvedimenti da attuare da parte delle amministrazioni». Giarda prima mette le mani avanti: l'80% delle norme varate non aveva bisogno di decreti applicativi. E fin qui lo hanno capito gli italiani: se metti una nuova tassa o alzi un'aliquota, quella scatta subito senza tanti complimenti e i contribuenti debbono solo pagare e stare zitti. Ma le grandi riforme no, hanno bisogno appunto di quei 469 decreti applicativi. E quanti ne ha varati Monti? Risposta: il 20%. Cioè nulla. Ecco perché gli italiani non si sono affatto accorti delle sue grandi riforme. Giarda elenca anche il dettaglio dell'incompiuta: la parte riforme del salva-Italia, varato un anno fa, aveva bisogno di 89 provvedimenti attuativi. Ne sono stati varati 30, nemmeno la metà in un anno. Poi c'era la famosa legge slogan «Cresci-Italia». Servivano 62 provvedimenti attuativi, il governo ne ha varati appena 14, ed ecco perché invece di crescere l'Italia rincula. Legge «Semplifica Italia»? Aveva bisogno di 58 decreti attuativi, ne sono stati fatti appena 7, e l'Italia è restata complicata come prima. Un po' meglio la semplificazione fiscale: 13 decreti approvati sui 38 necessari. Riforma epocale del lavoro di Elsa Fornero? Ventidue decreti attuativi previsti, ne è stato varato appena uno (riforma praticamente non in vigore). Prima spending review: varati 3 decreti sui 9 necessari. Il secondo decreto Sviluppo aveva bisogno di 82 decreti attuativi. Ne sono stati varati 9. Infine la spending review numero due: 109 decreti attuativi previsti, varati solo 16. Poi Monti dice che è colpa del Parlamento se le sue riforme sono in gran parte naufragate.  E invece la grande incompiuta è dovuta ai suoi ministri fannulloni. Che avrebbe potuto punire, grazie alla legge Brunetta…

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