Carlo Bonomi: "Milano non può salvare l'Italia da sola. Se il Paese resta a traino, prevedo guai"
Presidente, è soddisfatto di questo governo? «Noi non esprimiamo giudizi politici. Sono contento ci sia un governo, perché l'Italia ne aveva bisogno. Mi auguro sia forte, coeso, autorevole e di legislatura. Abbiamo bisogno di avviare una seconda stagione di riforme importanti: l'Italia cresce solo dell'1,5% contro una media Ue del 2,4%, quel che è stato fatto non basta, anche perché la tendenza è verso il rallentamento e la forbice tra noi e gli altri Stati europei si sta aprendo sempre di più». Cosa pensa del fatto che al governo ci siano due forze così eterogenee come M5S e Lega? «Dopo 90 giorni è almeno apprezzabile che qualcuno si sia assunto la responsabilità di governare. Il Paese era fermo da gennaio, quando è iniziata la campagna elettorale, abbiamo già perso abbastanza tempo. Mi ha fatto piacere che si sia posto fine alle speculazioni politiche e si sia pensato all'interesse nazionale». Cosa le piace del contratto di governo Cinquestelle-Lega? «La difesa del made in Italy, che è il secondo marchio al mondo e non è abbastanza protetto dall'Europa; e non solo nel comparto agroalimentare: nei supermercati all'estero poi si vedono cose da brividi, tipo le etichette “Parmesan” o prodotti tedeschi con il tricolore sulla confezione». La flat tax? «Mi piace il tema della tassazione da abbassare e della revisione del sistema fiscale, ma non sono convinto che la flat tax sia la strada più efficace: la tassazione dev'essere organica, noi paghiamo troppo tutto, non solo l'Irpef o l'Ires. La flat tax ci costerebbe in termini di riduzione Ires circa 15 miliardi: preferirei fossero utilizzati per abolire l'Irap, che è un prelievo iniquo e aiuterebbe anche la semplificazione». Cosa pensa dell'abolizione delle sanzioni alla Russia, caldeggiata dalla Lega? «Le sanzioni hanno danneggiato molto alcuni settori e non sono mai positive. Certo che sarebbe meglio abolirle, ma attenti: il mercato russo per l'Italia vale 9 miliardi, quello americano 45. Prima di prendere iniziative pensiamo alle conseguenze, anche per il mondo finanziario, specie con un'amministrazione muscolare come quella che c'è attualmente a Washington. Gli Stati Uniti hanno un concetto molto ampio di territorialità e le nostre banche potrebbero essere sanzionate in Usa se fanno affari con la Russia in Italia. Affronterei il tema delle sanzioni a Mosca nell'ambito di un ripensamento dell'intera politica estera italiana che, peraltro, mi sembra sia tra gli obiettivi del contratto di governo». Stiamo scoprendo il lato sovranista di Assolombarda? «Non è questione di sovranismo. Siamo la seconda manifattura d'Europa, sediamo nel G7 e siamo tra le più grandi potenze industriali al mondo, eppure in politica estera non siamo mai stati capaci di ritagliarci il ruolo che ci spetta. Non abbiamo la giusta dimensione internazionale, andiamo sempre al traino». Al timone di Assolombarda da poco più di un anno, Carlo Bonomi, classe 1966, imprenditore del settore biomedicale, rappresenta circa 6mila aziende e 345mila lavoratori. Guida l'associazione di gran lunga più importante, per dimensione e fatturato, di Confindustria. «Dobbiamo stare attenti con questa narrazione della Lombardia locomotiva dell'Italia», avverte. «Il Paese si regge sul postulato che Milano corre e si porta dietro tutto il resto, in una sorta di traino solidale, ma io temo l'effetto elastico: noi andiamo avanti ma se nessuno ci segue, alla fine verremo tirati indietro di colpo, e ci troveremo senza le leggi, le infrastrutture e le dinamiche socio-economiche necessarie per ripartire. Non si può far conto che Milano vada avanti indipendentemente dal resto del Paese perché, se un giorno si fermasse, sarebbe peggio di una tragedia nazionale, finirebbe tutto, l'Italia ha bisogno di Milano come Milano ha bisogno dell'Italia». Presidente, a questo punto non posso evitare di chiederle se nell'ottobre scorso ha votato Sì al referendum indetto dalla Lega per l'autonomia della Lombardia? «Non glielo dico. Però non ho difficoltà a riconoscere che, se utilizzata in modo corretto, l'autonomia può dare un grande impulso all'economia dei territori. Non a caso l'hanno richiesta Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che rappresentano il nuovo triangolo industriale del Paese». Perché può essere tanto importante? «Perché è una leva per la competitività: l'economia funziona per distretti, che si sviluppano intorno ai centri universitari a cui attingere valore, il capitale umano. E poi l'autonomia può rivestire un ruolo fondamentale in funzione progettuale. La Lombardia, da tre anni, è tra le Regioni motore d'Europa con il maggior numero di nuovi brevetti». Senza sconti: qual è la reale situazione di salute dell'Italia? «Febbricitante. Grazie all'export abbiamo agganciato un po' di crescita ma non è sufficiente per recuperare il terreno perso negli otto lunghissimi anni di crisi. I consumi non sono mai davvero ripartiti e il problema delle disuguaglianze sociali è esploso». Eppure il governo precedente diceva che eravamo fuori dal tunnel... «Se le cose andassero così bene, gli italiani non avrebbero votato in massa due partiti antisistema. La Lombardia ha raggiunto e superato i livelli pre-crisi, ma altri territori sono in grande difficoltà». Partiti antisistema: per lei Cinquestelle e Lega pari sono? «No, e non solo perché hanno un differente bacino elettorale, anche geografico, ma perché la Lega ha una storia di buona amministrazione locale che il M5S deve ancora dimostrare». Mi ha spiegato cosa le piace del contratto gialloverde. Dica cosa invece non la convince? «Il no di Cinquestelle alle Infrastrutture è inaccettabile. Le grandi opere non possono essere messe in discussione. La Lombardia ha problemi di ponti che cascano. Da quando, un anno e mezzo fa, il peso di un tir ha fatto crollare un viadotto nel Lecchese, molti viadotti sono chiusi ai carichi eccezionali. Per non parlare del completamento del Terzo Valico, la ferrovia finalizzata a creare un collegamento veloce tra Genova e l'entroterra, fondamentale per il collegamento tra il porto ligure e l'Europa centrale». A proposito di dolenti note: cosa mi dice del reddito di cittadinanza? «È giusto che un Paese si prenda cura dei più deboli specie se, come le ho detto, le disuguaglianze sono aumentate. Però il reddito di cittadinanza non è la strada giusta: è un sostegno a chi è in difficoltà ma non crea lavoro, che è poi il problema principale del Paese e soprattutto del Sud. Il tetto massimo delle tre offerte rifiutabili oltre il quale si perde il diritto all'assegno poi è assurdo. Vengo da un viaggio di lavoro in Calabria dove mi hanno detto che tre offerte uno non le vede neppure in tutta la vita». L'abolizione della legge Fornero mette d'accordo Lega e M5S. Anche lei? «Mi sfilo. Se si vive di più, è fatale che si debba lavorare più a lungo, anche se una revisione intelligente della Legge penso possa essere fatta. Non è vero poi il teorema che le aziende rimpiazzano sistematicamente chi va in pensione prendendo un giovane. Il mondo del lavoro si sta trasformando e sarà incentrato sulle competenze e non più sul paradigma dei contratti: i lavoratori dovranno aggiornare le proprie professionalità ogni sei-sette anni, non ogni venti come avveniva fino a poco tempo fa. Inoltre, sta sparendo anche la specializzazione, a vantaggio della multidisciplinarità. All'abolizione della Fornero preferirei un patto generazionale, con gli anziani che negli ultimi anni possano lavorare part-time, ma a piena contribuzione, occupandosi di trasferire ai giovani know-how ed esperienza. Il lavoro peserebbe di meno e assumerebbe quella connotazione di utilità sociale che lo renderebbe più stimolante per chi è a fine carriera». Affrontiamo il problema dei problemi: l'euro… «Ma prima una precisazione: non confondiamolo con l'Europa». Pregi e difetti dell'euro? «Il primo vantaggio è senz'altro quello di aver pagato interessi bassi sul debito pubblico. Considerate le sue dimensioni, è stato un bel risparmio, del quale però non abbiamo approfittato per ristrutturare e tagliare le spese, preferendo destinare le risorse che risparmiavamo dagli interessi a provvedimenti funzionali a creare consenso ma economicamente sterili, come per esempio il bonus giovani o i famosi 80 euro, che costano 10 miliardi l'anno». Lo svantaggio è non averci consentito di svalutare? «Ma la svalutazione non è un vantaggio bensì una droga che non ti rende veramente competitivo: diventi concorrenziale a livello finanziario ma perdi posizioni a livello tecnologico e tutto ti costa di più, a cominciare dalle materie prime, che il nostro Paese deve comprare quasi per intero all'estero. L'euro ci ha consentito di restare in un grande mercato. Lo svantaggio piuttosto è che il nostro debito viene venduto nella stessa moneta di quello di Paesi più forti, e quindi ha un deficit competitivo e per questo devi garantire interessi più alti». Si è spaventato quando i giornali hanno pubblicato il cosiddetto piano di uscita dall'euro? «Si può parlare di tutto, l'importante è la chiarezza. Se si vuole uscire dall'euro, bisogna analizzare i pro e i contro e poi decidere, ma informati. Personalmente penso che l'uscita dall'euro porterebbe a un'inflazione insostenibile e, potenzialmente, con la perdita del potere d'acquisto, al fallimento dell'economia industriale del Paese». Se si fosse tornati al voto la campagna elettorale sarebbe stata giocata dalla sinistra come un referendum pro o contro l'euro, malgrado le smentite di M5S e Lega… «Fare dell'euro una battaglia politica fa male al Paese e invito tutti i partiti a una maggiore responsabilità. In Italia non si affrontano mai sul serio i temi, è sempre una lotta “o con me o contro", e così avviene anche per la moneta unica, ma il nostro problema non è l'euro, sono le tasse e le disuguaglianze. Ma ormai delle emergenze sociali ci occupiamo noi industriali più dei politici. Causa mancanza di risorse, lo Stato arretra sempre più e il mondo economico, diventa un attore sociale». Passiamo al problema Europa… «L'Europa non è un problema ma un'occasione mancata perché si sono anteposti gli interessi economici di breve periodo rispetto alla costruzione di valori comuni a una reale unione economica, fiscale e costituzionale. Bisogna prima pensare alla crescita sociale e dopo a quella economica, come avevano in testa i fondatori». Chi ha rotto il giocattolo? «Le responsabilità maggiori sono della Germania, a cui preme soprattutto esercitare la leadership: ha imposto una sopravvalutazione dell'euro che ha stroncato gli altri partner. Noi però abbiamo sbagliato ad accettare un cambio che non ci rappresentava. D'altronde in Europa il nostro problema è sempre lo stesso: una classe politica che guarda al consenso nel breve periodo, i guai partono tutti da lì». È vero che la Francia ambisce a colonizzarci? «Macron ha detto che vuole diventare la seconda manifattura europea; significa che noi dovremmo diventare la prima. Il tema è il nostro ruolo e come difendere i nostri interessi strategici, non cosa fanno gli altri». di Pietro Senaldi