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Pane, l'ultima truffa sui prodotti congelati: l'errore nel decreto, che cosa ci nascondono

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Gino Coala
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Dopo un' attesa durata oltre dodici anni e infinite promesse mai mantenute da parte dei politici di turno, finalmente arriva il decreto sul pane che fa un po' di chiarezza e permetterà di distinguere fra l' alimento fresco e quello decongelato. Scatterà pure il vincolo di porre in vendita i due tipi di pane in scaffali rigorosamente separati sui banconi del supermercato. Ma le buone notizie finiscono qui. Non aspettiamoci di sapere fino in fondo che tipo di pane porteremo in tavola anche dopo il 19 dicembre, giorno di entrata in vigore delle nuove norme. Leggi anche: Gianduiotti, il brutto sospetto: che cosa mangiamo davvero Il decreto interministeriale numero 131/2018 licenziato dai dicasteri dello Sviluppo economico e delle Politiche agricole il 1° ottobre scorso, ha il pregio di mettere fine alla confusione normativa che per anni ha consentito di spacciare per freschi filoni e michette ottenuti scongelando semilavorati importati in prevalenza dai Paesi dell' Europa orientale e finendone la cottura. Ecco, questo pane non si potrà più definire «fresco», a differenza di quello fatto «secondo un processo di produzione continuo, privo di interruzioni finalizzate al congelamento o surgelazione, ad eccezione del rallentamento del processo di lievitazione, privo di additivi conservanti e di altri trattamenti aventi effetto conservante». In pratica quello che esce dai forni tradizionali. Non devono trascorrere più 72 ore da quando inizia la lavorazione al momento in cui il prodotto è messo in vendita. DURABILITÁ PROLUNGATA Tutti i pani diversi da quello fresco dovranno essere «posti in vendita con una dicitura aggiuntiva che ne evidenzi il metodo di conservazione utilizzato», recita poi l' articolo 3. Così, oltre a non essere più definibili come prodotti «freschi» questi alimenti dovranno esplicitare in maniera chiara sull' etichettatura diciture tipo «pane sottoposto a processo di surgelazione», o più semplicemente «pane decongelato». Purtroppo il decreto non fissa le espressioni ammesse, lasciando ampia discrezionalità ai produttori per descrivere quali processi di conservazione abbiano adottato. Del tutto assente, invece, l' obbligo di indicare in etichetta il Paese di provenienza del semilavorato. «Uno sbaglio enorme», spiega a Libero Stefano Fugazza, panificatore e presidente dell' Unione artigiani di Milano, protagonista di battaglie storiche contro l' opacità dei prodotti da forno. TRACCIBILITA' NEGATA «La scelta di escludere la tracciabilità», aggiunge Fugazza, «è un errore perché si è persa un' occasione importante per dissipare la nebbia che avvolge l' origine di parecchio pane fra quello che si acquista ogni giorno da noi. Pane prodotto in Paesi come quelli dell' Est Europa, con legislazioni molto meno stringenti della nostra quanto a conservanti e additivi. Ecco, per essere sincero mi sarei aspettato un po' più di coraggio». Le importazioni di semilavorati sottoposti a congelazione mettono in gioco purtroppo le norme relative al mercato unico e in particolare il Codice doganale comunitario, con le regole capziose sull' acquisizione dell' origine: un prodotto acquisisce l' origine del Paese in cui è avvenuta l' ultima lavorazione o trasformazione sostanziale. Dunque, a termini di legge (europea) il pane decongelato prodotto ad esempio in Romania, potrebbe addirittura essere etichettato come «Made in Italy», essendo stata ultimata la cottura nel nostro Paese. Un decreto che avesse reso obbligatoria la dichiarazione d' origine sarebbe incappato probabilmente nel «niet» della Commissione europea, contrarissima alle norme che palesano la provenienza dei cibi. A Bruxelles sta prevalendo infatti la convinzione che il «Made in...» obbligatorio rappresenti un ostacolo tecnico alla libera circolazione delle merci. La trasparenza a tavola? Chissenefrega. di Attilio Barbieri

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