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Benvenuti a Clubhouse, il posto dove regna il cicaleccio e ti mangiano la privacy

Clubhouse

Si entra solo su invito ( e sta bene). Ma poi si parta di tutto (troppo) e ti chiedono di condividere la tua agenda (sticavoli): ecco al nuova moda

Francesco Specchia
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“Hey Francesco- I have an invite to Clubhouse (sorrisino emoticon). Here the link!...”. Una cara amica, introdottissima nel jet set, mi ha invitato col suddetto link standard nella riserva sociale -per molti ma non per tutti- di Clubhouse: “Non ho tempo di mettermi ad ascoltare tutta ‘sta gente che parla. Ma tu ci devi essere…”. Già. Ci devo essere. Un obbligo morale.

E la prima sensazione è stata quella di far capolino in uno di quei fumosi e rutilanti speakeasy del proibizionismo, accompagnato direttamente dal fantasma di Scott Fitzgerald. Ma è stata, appunto, solo la prima sensazione. Due ore dopo lo speakeasy l’avrei incendiato. Clubhouse è il social del momento, arrivato da poche settimane in Italia. Una sorta di “Twitter audio” spinto da valutazioni miliardarie, a cui si può accedere solo dall'iPhone e solo su invito. Questa meccanica dell’invito fintamente esclusivo ha un suo fascino perverso. Oltre che spinto da curiosità giornalistica, in Clubhouse ci entri per vedere chi c’è. Si sta sviluppando addirittura un mercato nero degli inviti su eBay (con prezzi che vanno su Twitter, da 5 a15 euro). E già questo avrebbe dovuto farmi desistere. Poi c’è la faccenda che, una volta entrato, il tuo profilo vocale ha più facilità di essere clonato di un Rolex venduto sulle piazzole autogrill. Quindi ti puoi ritrovare in quell’ambiente polifonico un Deep Fake, un finto te stesso, che va in giro ad insultare le minoranze, raccontare storielle zozze o minacciare di invadere la Polonia. Ma, transeat. Tecnicamente Clubhouse si distingue dai soliti social perché si basa esclusivamente sull’utilizzo di messaggi vocali: i post sulla piattaforma non sono veicolati da alcun tipo di testo o immagine o video. Cioè il contrario di Instagram e Tik Tok. Tutto funziona come in un forum parlato o una immensa chat room. Da cui si accede a varie “stanze” (ci sono anche su Facebook), e in cui si discute dei temi più disparati: musica, cinema, tecnologia, politica, salute, attualità, economia. In realtà, costretto dalla necessità di scrivere questo pezzo, io sono entrato un po’ in tutte le stanze dove mi apparivano, come bolle di sapone, le facce di interlocutori sconosciuti. Ma i loro discorsi sono mediamente insulsi o banali; tutti vogliono dire la propria sullo scibile; qualcuno è arrivato a spiegarmi come si scrive un articolo, quanto durerà il governo Draghi o come serve esser nazisti nell’educazione dei figli. L’impressione, come per gli altri social, è quella di un rigurgito di democrazia. Rispetto a un podcast Clubhouse è in diretta e la conversazione nella stanza avviene in quel preciso momento, dura finché la stanza resta aperta e non è possibile scaricare o recuperare dopo la chat. Verba volant. Clubhouse ti dà due opzioni: partecipare alle discussioni o metterti in un angolo come faceva Borges durante i convegni degli intellettuali e ascoltare con vezzo antropologico. Io, ho scelto la seconda opzione. E ho evitato accuratamente l’interazione con la calca degli invitati. Non tanto per snobismo, quanto perché, per avere un buon giro di dialogo dovresti invitare almeno altri due amici che il social ti concede; ma, per farlo, Clubhouse ti obbliga ad inviare e condividere la tua rubrica di contatti. E qui, sticazzi. La privacy è un tabù inviolabile. Non fornisco numeri di telefoni, indirizzi e profili al mio commercialista, figuriamoci alla brutta copia di un network radiofonico. Tra l’altro, in merito, ho letto l’interessante articolo di Antonio Dini della Stampa: “Cosa se ne fa ClubHouse dei dati che raccoglie? Dove li mette? A chi li passa? La piattaforma ha vulnerabilità di sicurezza informatica ma soprattutto pecche sulla privacy. La maggior parte del flusso di dati si poggia su una società terza chiamata Agora, che ha sede a Shanghai”. Figuriamoci.

Se il Garante europeo e italiano della privacy si sono attivati con richieste formali sul trattamento dei dati dei social (non si sa a chi vengono venduti, come sono incrociati, quale profilazione consentano), un motivo ci sarà. E comunque finire nel database di una multinazionale cinese resta seccante. Io Sono uscito da Clubhouse in punta di piedi, con l’entusiasmo iniziale declinato in una serie di domande. Per chi come me che vive sulla scrittura, c’è davvero la necessità di abbandonarsi al flusso del sonoro (in cui si diluiscono minchiate poderose, è per questo che fare radio è molto più difficile che fare tv), apparecchiando la mia tomba professionale? Era imprescindibile l’ennesimo social “fichissimo” che lascerà il passo al prossimo ? Cara Alessia Severin, se vogliamo ascoltare le chiacchiere del mondo e commentarle, non è sempre meglio il tavolino del bar in centro?...

 

 

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