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Recovery fund, i prestiti Ue li ripagheremo fino al 2058: se spendiamo male i quattrini siamo fritti

 Mario Draghi

Alessandro Giuli
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Piano con l'esultanza scriteriata: il Recovery plan all'italiana non sarà un pranzo di gala e anzi, dopo l'indigestione di miliardi (191,5 più altri 30,6 del Fondo complementare previsti da Palazzo Chigi) per provare a rimettere in piedi l'Italia post pandemica, ci aspettano almeno 37 anni di dura fatica per saldare l'enorme quota di debito su cui poggia l'intero pacchetto. Ben che vada, finiremo di pagare nel 2058. Vale per noi, che siamo gli ultimi in classifica fra i ricchi dell'Occidente, ma più in generale vale per l'Europa intera che spera di cavarsela con la sospensione temporanea dei vincoli esterni e una maxi iniezione di liquidità da circa 750 miliardi di euro pretenziosamente chiamata Next Generation Eu. Intendiamoci, qualche squillo di fanfara è senz' altro lecito. A leggere fra le righe del Piano di ripresa e resilienza consegnato ieri dal governo alle Camere, c'è da plaudire a parecchie idee che si portano dietro altrettanti finanziamenti: il potenziamento della connettività materiale e immateriale (strade, alta velocità ferroviaria, reti digitali), la riconversione energetica lungo la filiera dell'idrogeno, la cura al dissesto idrogeologico, il rafforzamento della medicina di prossimità, l'ampliamento dell'offerta culturale e dei servizi per l'infanzia, la semplificazione del quadro normativo, la velocizzazione della giustizia e via così al netto delle immancabili e generiche concessioni al conformismo linguistico dominante (inclusione, coesione e resilienza sono termini già consunti dalla banalità che esprimono). Non male, figuriamoci, anche perché stiamo parlando d'iniziative abbastanza risalenti nel tempo e nel libro delle promesse non mantenute in condizioni di normalità, talune perfino cifrate nelle vecchie leggi di stabilità. E con ogni evidenza non stiamo vivendo in circostanze normali, sicché lo sforzo economico deve essere proporzionato alle dimensioni dell'emergenza.

 

 

 

Onorare un debito

Tuttavia sbaglieremmo a credere che possa bastarci la sopraggiunta consapevolezza di dover promuovere coralmente azioni anti cicliche, né può consolarci lo scatto d'orgoglio con cui il premier Mario Draghi ha ricollocato l'Italia al centro della rispettabilità internazionale, aggirando gli ultimi ostacoli frapposti da Bruxelles dopo una telefonata con l'europresidente Von der Leyen. La fredda verità dei fatti ci dice che l'Europa sta dilatando a dismisura il bilancio comunitario attraverso l'emissione massiccia di debito (recovery bond), e sappiamo che tale bilancio viene garantito dagli Stati membri. Sebbene l'esperienza secolare e alcune legge elementari di macroeconomia suggeriscano che si possa vivere indefinitamente con un enorme debito sulle spalle (Ronald Reagan ci scherzava su, ammettendo che il debito pubblico statunitense era grande e grosso e ormai sapeva badare a se stesso), tutti abbiamo imparato che prima o poi i crediti diventano esigibili; e bisognerà farci i conti. L'Unione questi conti li ha già abbozzati e chi ha potuto studiarli (vedi studiocataldi.it) suggerisce di non farsi illusioni: fino al 31 dicembre 2058, l'Europa sarà a chiamata a onorare un piano di rientro speciale per incrementare dello 0,6 per cento annuo le proprie entrate fiscali (pari a circa 22 miliardi l'anno). Trattasi dunque di nuove tasse dirette, un "fine pena mai" che dovrebbe articolarsi in 4 linee di trasfusione comminate a ciascuno Stato: maggiori trattenute sull'Iva semplificata; la plastic tax su imballaggi e prodotti non riciclabili; un'imposta nazionale straordinaria sugli utili delle società (incrementabile con una parallela tassa europea); un'impennata dell'imposta sulle emissioni di Co2. Inutile millimetrare ulteriormente, qui e ora, le cifre in questione; basti rammentare che il totale degli investimenti previsti in Italia è di 222,1 miliardi di euro e che per oltre due terzi non si tratta di quattrini a fondo perduto, i quali di per sé nemmeno esisterebbero in assenza di un sottostante volume di ricchezza con tassi di sviluppo favorevoli su cui giustificare l'emissione di moneta.

 

 

 

Una condanna

In altre parole, siamo di fronte a uno snodo epocale e a una condanna ai lavori forzati nella fase storica in cui il lavoro più scarseggia e va totalmente riconfigurato, aggiornandolo ai tempi nuovi. "La potenza di fuoco" di cui favoleggiava con scarsa coscienza l'ex premier Giuseppe Conte sta arrivando, non c'è dubbio, e a quanto pare è in buone mai (quelle di Draghi), ma avrà un costo altissimo e richiederà una precisione millimetrica nel dirigerla a destinazione. Fallire il bersaglio, oltreché temporeggiare in furbizie o illusioni, significherebbe spararsi addosso. Il discorso, ripetiamolo, riguarda anzitutto Eurolandia che si è finalmente votata al debito comune in cambio di politiche fiscali e di bilancio armonizzate, ma vale in modo particolare per il nostro Paese che litiga sulla proroga del superbonus mentre si ripromette di sanare il divario sfavorevole alle donne, ai giovani e al Mezzogiorno. E tutto ciò senza considerare a sufficienza il rischio che incombe dietro l'angolo: l'unica maniera per ripianare un debito è guadagnare i soldi sufficienti per farlo e al contempo vivere decentemente. Se non c'è crescita (il cosiddetto, e maledetto, denominatore di cui parlano gli economisti), ci aspettano soltanto altre tasse regressive come le patrimoniali sugli immobili e il risparmio privato, ulteriori espropri di sovranità fiscale e finanziaria, alienazione di asset nazionali strategici, deindustrializzazione del tessuto produttivo ed "ellenizzazione" dell'economia, ovvero cessione infrastrutturale e gestionale a beneficio degli investitori esteri, per lo più asiatici. Oppure la bancarotta. Ecco, non per voler guastare la digestione di una crapula immaginaria, ma la situazione sta grosso modo in questi termini.

 

 

 

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