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Ennio Doris a Feltri, così in piazzatta a Portofino è nato il patto con Berlusconi

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Banca Mediolanum festeggia l'anniversario della fondazione del gruppo avvenuto nel 1982: tutto iniziò con un incontro fortuito tra Ennio Doris e Silvio Berlusconi... Banca Mediolanum festeggiai suoi 40 anni con un volume fotografico che ripercorre la storia del gruppo. Tra gli altri contributi, anche un articolo-intervista di Vittorio Feltri a Ennio Doris (scomparso lo scorso novembre), scritto nel 1987 per la rivista «Fondi&Gestioni» e che riproduciamo integralmente.


Obiettivo ricchezza. Per raggiungerlo, bisogna osare: anche di fermare Berlusconi per strada e dirgliene quattro. Quattro idee , s'intende. Può capitare che vi ascolti, si interessi e vi metta alla prova. Come è accaduto a Ennio Doris, 47 anni, di Tombolo, un paesino di commercianti di bestiame vicino a Padova, che un giorno incontra l'onnipotente Silvio a Portofino, ed esclama: «Eccolo lì, è proprio lui», questi si volta, sorride allo sconosciuto, gli stringe la mano. Seguono convenevoli e chiacchiere varie. E' fatta: dopo cinque minuti parlano già di lavoro, si scambiano gli indirizzi. Trascorrono un paio di settimane.
Doris non si illude certo che il padrone di Canale 5 si rammenti di lui. Ma una sera squilla il telefono: «Sono Berlusconi». Il quale chiede all'esterrefatto interlocutore un appuntamento. Così, fra i due è nato il patto di ferro che ha dato vita, nel 1982, a Programma Italia, la società che distribuisce fondi comuni della Fininvest: lo scrigno del gruppone milanese.

AL 50 PER CENTO - Piccolo ma non trascurabile particolare: il padovano non aveva una lira, ma nell'affare gli è toccata una fetta cospicua, 50 per cento, che oggi vale un Perù. La società, un caso unico nella galassia societaria del gruppo di Segrate, ha 1.900 agenti sparpagliati nella Penisola, quasi tutti al Nord e al Centro, che raccolgono capitali a tappeto, "puntandoli" su una vasta rosa di attività (assicurazioni, immobiliari, titoli, azioni) che ha la prerogativa di ridurre al minimo i margini di rischio.
E le rendite, nonché la fiducia dei signori clienti, crescono di anno in anno, rinforzando l'impalcatura della holding. Ma chi è lo "sfrontato" veneto che ha avuto il coraggio di rimorchiare il dottore di Arcore?
Come ha fatto a sedurlo?
Una storia lunga. Comincia nel 1955 quando i genitori di Ennio scelgono di farlo studiare; e non è una decisione facile da prendersi, dato che la famiglia non è povera, ma poverissima, e a quei tempi un ragazzo curvo sui banchi di scuola anziché sulla zolla da zappare significava doppia perdita: una spesa e un mancato guadagno. Lo iscrivono all'istituto tecnico commerciale facendogli pressappoco questo discorso: «Noi il sacrificio lo sopportiamo volentieri, però ne devi sostenere uno anche tu: essere promosso a giugno, sempre. Se ti bocciano una volta, vai al mercato come garzone». Lo studente accetta.

STUDIO MATTO - E per paura di un avvenire da anonimo e abbruttito ambulante, si butta sui libri come un maniaco: primo della classe gli pare poco, e viene nominato all'unanimità il migliore allievo dell'intero corso. Un portento di volontà ed impegno. «Studiavo 10,12 ore al giorno», racconta. «Non per pavoneggiarmi, ma per la soddisfazione di fare le cose bene, per sfruttare completamente le opportunità che mi offrivano gli insegnanti: imparare ogni lezione, non disperdere nulla, in maniera che poi, nel lavoro, fossi agevolato. A 19 anni col diploma in tasca, mi presentai al Banco antoniano di Padova e Trieste.
Fui assunto. Immagini la felicità: finalmente avevo uno stipendio, e sollevavo i miei da un bel peso. Allora, un posto in banca era manna, buon reddito e sicurezza».
«L'impiego mi piaceva e non mi costava fatica. Sgobbavo e facevo carriera rapidamente. A 27 anni ero direttore di filiale. Mica male.
Forse sarei rimasto lì se non avessi incontrato un grosso imprenditore che mi cedette il timone di un'azienda metalmeccanica, la più in crisi delle tante che possedeva. Era una sfida. E mi ci gettai a capofitto. Ho avuto fortuna: ricordo quel periodo con nostalgia. Gli operai mi seguivano perché ero dalla loro parte. L'autunno caldo non ci sfiorò nemmeno. O meglio: aderivamo agli scioperi per evitare rappresaglie. Ma recuperavamo con gli straordinari, e la produzione non ne soffrì.
Anzi, ottenemmo risultati apprezzabili. Il proprietario era contento».
E lo era a tal punto che non faceva un passo senza tirarsi dietro il fido ragioniere salito ormai al rango di manager. «Col capo», dice Doris, «partecipavo alle assemblee degli azionisti della banca. E fu proprio in una di queste occasioni che ebbi una folgorazione decisiva per il mio carattere. Raggiunsi il principale in una fabbrica, scesi dalla mia Fiat 850, che aveva percorso 120mila chilometri ed era sgangherata, e salii sulla sua Citroën Pallas, auto meravigliosa. Sedetti dietro, un divano morbidissimo. I piedi sprofondavano nella moquette, avevo i brividi. Lui era al volante e sembrava un re. Non dimenticherò mai quella scena. Pensai: questa è la macchina che fa per me. Non solo: mi resi conto che per guidare con gioia e disinvoltura bisogna essere padroni. E da quel momento l'idea di mettermi in proprio non mi abbandonò più».
Nel 1970 l'ex bancario ritrova un vecchio amico che vende quote per il fondo della Fideuram, e ha l'aria di passarsela benino. Lo interroga, si fa spiegare in che cosa consiste l'inconsueta professione, a quanto ammontano i profitti: le provvigioni. E domanda: «Come si fa entrare nel giro?». Risposta: «Pigliano chiunque, purché sveglio, in grado di portare a casa contratti».

ARBITRO DI SE STESSO - La prospettiva di essere arbitro della propria vita stimola il giovane ragioniere ad aprire un nuovo corso: pianta in asso l'azienda metalmeccanica ed esordisce nel ramo finanziario. Gli inizi sono duri, poi è un trionfo. In alcuni anni, dandoci dentro con volontà, sale nella scala gerarchica; e da venditore semplice arrivano i quartieri alti della Dival, dépendance della Ras.
A un certo punto il pallino ce l'ha in mano lui: ingaggia gente, forma i quadri, organizza. Soprattutto riscuote eccellenti compensi e acquisisce un'esperienza di prim' ordine che gli permette di veleggiare sicuro nelle burrascose acque economiche degli anni '70, quando l'inflazione divorava i redditi e scoraggiava il risparmio. Doris nonostante tutto - la recessione interna e la crisi internazionale - era ottimista: «$ illogico supporre, riflettevo, che un Paese industrializzato come il nostro, per quanto affaticato, non riprenda a svilupparsi, secondo il naturale andamento della storia che comporta sbandamenti temporanei, ma non marce indietro».
Aveva ragione. Ma come, e a chi, dimostrarlo? Nel 1981, Doris sfoglia un numero di Capital, il mensile del Corriere della Sera, che ha in copertina la foto di Berlusconi e dentro, una lunga intervista. Per curiosità, legge. «Le parole di Silvio ammetto francamente, mi entusiasmarono. Mi colpì un concetto, sopra gli altri: e cioè che nel lavoro è sbagliato porsi traguardi modesti, ma occorre pensare in grande. Condividevo.
Ci meditai su molti giorni con l'intento di applicarne il principio nella mia attività; e quando lo sperimentai mi accorsi che funzionava perfettamente».

E con Berlusconi, com' è andata?
«Lo stesso anno, andai a Genova per un affare. Non mi garbava di dormire lì e prenotai un albergo a Santa Margherita. Era presto e per riempire un paio d'ore arrivai a Portofino. Incontrai il dottore per caso. No, davvero, non lo conoscevo... Vedendolo pronunciai il suo nome ad alta voce, come succede quando ci si imbatte in un personaggio importante, un attore, un uomo politico, uno scrittore. E un po' me ne vergognai. Ma lui fu gentile, mi trattó da amico. Gli dissi che avevo apprezzato la sua intervista. Con naturalezza, conversammo una dozzina di minuti. Il resto si sa».
Adesso, Doris, è un big.
Le strategie le concorda col superpresidente, ma al resto provvede da sé, condividendo la responsabilità delle tattiche, della conduzione, della gestione e dei programmi a breve termine col dottor Foscale e col dottor Paolo, fratello del "Berlusca". E il successo reca la sua firma, anche se lui, l'ex povero, attribuisce la maggior parte dei meriti al celebrato socio: «ovviamente» afferma. «I suoi consigli, e gliene chiedo spesso, sono illuminanti».

Non ci sarà in lei una dose di piaggeria?
«Evitiamo di scherzare. Silvio ha un'intelligenza fenomenale. Nel nostro primo colloquio, mi stupì la prontezza con cui afferrava i problemi del fondo di cui non era affatto esperto. Mi pose immediatamente quesiti profondi: segno che in una manciata di secondi aveva intuito ciò che di norma si comprende dopo anni di studi e di pratica. D'altronde, non scopro io che è un genio: guardi il suo impero, e tenga presente che è sorto dal nulla». La sede di Programma Italia è a Milano 2, palazzo Donatello, a un tiro di fionda dall'emittente. Il ragionier Ennio occupa una stanza enorme, ovattata, dove non si ode un rumore. È un uomo alto e solido, tipica taglia della razza Piave. Parla con scioltezza e proprietà di linguaggio; in ogni sua frase emerge la carica berlusconiana, la voglia matta di vincere, un'inquietudine attiva e uno spirito di gruppo da équipe sportiva lanciata alla conquista di chissà che. All'occhiello della giacca ha un distintivo: il mitico Biscione. Moglie giovane (sette anni meno di lui), ha due figli: un ragazzo di 20 anni e una ragazza di 17. Ha un hobby: la bicicletta. Ma ci va solamente la domenica con qualche collaboratore: e mentre pedalano, discutono di Fininvest, così l'allenamento vale il doppio. Era tifoso della Juventus fino all'estate scorsa, ma anche il cuore sportivo ora ha cambiato battito, e scandisce la marcetta del Milan, l'unica impresa del feudo che non ha ancora battuto la concorrenza. «Ma è questione di pazienza» dice Doris. «Quando assisto alle partite mi eccito come in ufficio. Se potessi, farei un salto dalla tribuna al campo per segnare io qualche gol». Sarebbe una buona idea.

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