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Pensioni, la verità assegno per assegno: chi fa il botto

Fausto Carioti
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I pensionati hanno ragione: la manovra scritta dal governo farà cassa riducendo il loro potere d'acquisto, tagliando la rivalutazione al costo della vita dei loro assegni futuri. E questo non è giusto né politicamente saggio. È previsto che sia così per tutti coloro che ricevono un trattamento mensile superiore a quattro volte il minimo Inps. Quest' ultimo nel 2022 è stato pari a 523,8 euro lordi e dal primo gennaio salirà a 563,7 euro: se sarà usato il secondo parametro, come sarebbe normale e come vorrebbero al ministero del Lavoro (mentre i tecnici del Tesoro insistono per usare il dato più vecchio, più penalizzante per i pensionati), ad essere colpiti saranno, in modo crescente, gli adeguamenti delle pensioni dai 2.255 euro lordi in su. La conferma viene dall'ultima bozza della legge di Bilancio 2023, che nelle norme che riguardano la «revisione del meccanismo di indicizzazione» si può ormai considerare definitiva, al netto delle possibili (e in questo caso auspicabili) modifiche in parlamento.

LA SPINTA DELL'INFLAZIONE - A spingere a questa mossa il ministro dell'Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, è stato il tasso d'inflazione. Lui stesso, nei giorni scorsi, ha firmato il decreto che fissa al 7,3% l'aumento percentuale necessario per adeguare le pensioni al costo della vita a partire da gennaio, ed la prospettiva di applicare un simile incremento a tutti gli assegni fa venire i sudori freddi a lui e ai tecnici del suo dicastero. Anche perché il governo ha deciso di dare un po' di più di quel 7,3% ai pensionati delle fasce più basse, proprio per aiutarli a reggere l'urto dei rincari. Ma è previsto che gli italiani chiamati a questo ennesimo gesto di solidarietà coatta facciano di più, e col loro sacrificio finanzino anche altri settori della spesa pubblica.

 

 

È scritto nei documenti che accompagnano la manovra, dove è previsto che nel 2023 e 2024 la spesa pensionistica scenda. E questo perché il taglio della rivalutazione delle Inps, che avranno, «in via eccezionale», un ulteriore incremento «di 1,5 punti percentuali per l'anno 2023 e di 2,7 punti percentuali per l'anno 2024». Quindi la cosiddetta "quota 103", che nel 2023 permetterà di andare in pensione a 62 anni con un'anzianità contributiva di 41, e l'incentivo per i lavoratori che, pur avendo tali caratteristiche, decideranno di rimanere in servizio. Ed infine la nuova versione di "Opzione donna", che permette alle lavoratrici in possesso di certi requisiti di andare in pensione prima del previsto.

Tutte queste novità, assieme alla proroga dell'"Ape sociale" (l'anticipo pensionistico per i lavoratori in difficoltà), pesano per poco meno di 1 miliardo di euro sui conti pubblici del prossimo anno, mentre dai risparmi sugli assegni pensionistici medi e alti arriveranno ben 2,1 miliardi. Così, tirando le somme, i pensionati colpiti dalla riduzione delle rivalutazioni non solo pagheranno per aiutare gli altri, ma consentiranno allo Stato di avere quasi 1,2 miliardi da spendere altrove.

 

 

Maggiore è l'importo del loro assegno, più forte sarà l'impatto del taglio, anche in percentuale. Si parte con una rivalutazione dell'80 per cento, anziché piena, per gli assegni compresi nella fascia tra quattro e cinque volte il minimo Inps, per arrivare, nel caso delle pensioni dieci volte superiori a quel parametro, ad un adeguamento pari solo al 35% di ciò che sarebbe dovuto. Sarà così nel 2023 e nel 2024, mala perdita di potere d'acquisto proseguirà per tutta la vita del pensionato, giacché le rivalutazioni successive, anche se dovessero tornare - come ora è previsto - ad essere piene nel 2025, saranno comunque calcolate su un assegno il cui valore reale è stato decurtato per due anni consecutivi.

SEMPRE GLI STESSI - Secondo i primi calcoli, fatti dall'ufficio studi della Uil, un pensionato che oggi ha un assegno lordo pari a 2.600 euro dovrebbe rimetterci, sotto forma di minori aumenti, circa 34 euro al mese. Chi ha una pensione di 3.100 euro ne perderebbe 89 e così via, sino a superare i 200 euro al mese per chi ha un trattamento lordo di 5.600 euro. Ma non è la prima volta che i pensionati di queste fasce sono chiamati a pagare per la collettività. Iniziarono Mario Monti ed Elsa Fornero, imponendo col loro "Salva Italia" il blocco della rivalutazione di tutti gli assegni superiori a tre volte il minimo negli anni 2012 e 2013. Da allora, tra sentenze della Consulta (che nel 2015 dichiarò incostituzionale la norma del governo dei tecnici) seguite da rimborsi-beffa, rivalutazioni "a fasce" fatte apposta per impedire il pieno adeguamento al costo della vita (governo Letta) e tagli alle «pensioni d'oro» (primo governo Conte), è stato un continuo. Quei pensionati hanno già dato e hanno ottime ragioni per essere esasperati. Il governo farà meglio a guardare altrove. 

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