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Stellantis, metà degli incentivi usati per produrre all'estero

Michele Zaccardi
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«Il denaro italiano non può incentivare le macchine prodotte all’estero» dice Adolfo Urso per rispondere all’ad di Stellantis, Carlos Tavares, che giovedì si era lamentato dei sussidi poco generosi destinati all’automotive, minacciando che, senza soldi pubblici, alcuni impianti italiani potrebbero chiudere. Un ricatto, insomma, a cui il governo non intende sottostare. E così, ieri, il ministro delle Imprese è intervenuto per mettere in chiaro un principio semplice, quasi banale, che, però, negli ultimi anni è stato ignorato. «Negli scorsi anni il 40% degli incentivi è andato a Stellantis, come è giusto che fosse, ma la metà di questi sono finiti a modelli prodotti all’estero e importati in Italia. Non può continuare così» ha detto Urso. Un problema che, va detto, non riguarda solo il gruppo italo-francese, ma un po’ tutto il comparto dell’auto. «Gli incentivi dati gli scorsi anni, che hanno consentito un aumento di immatricolazioni in Italia, sono finiti all’80% a macchine prodotte all’estero» ha precisato il ministro.

Ma il nostro Paese rappresenta quasi un’eccezione nel panorama europeo, visto che la produzione, crollata da 1 milione di veicoli del 2017 a poco più di 750mila, è largamente insufficiente a soddisfare la domanda, che viene perciò colmata dalle importazioni. «Solo in Italia abbiamo un delta (divario, ndr) così ampio tra produzione e immatricolazione» ha detto il ministro, ricordando che a fronte di un milione e 400mila auto immatricolate ogni anno solo il 30% viene prodotto nel nostro Paese, mentre il 70% è importato. Secondo Urso, il motivo risiede anche nel fatto che «solo in Italia abbiamo una sola casa automobilistica». «Germania, Spagna, Slovacchia, Polonia, producono di più di quanto immatricolano» ha aggiunto il ministro. «Non è che produrre in Germania costi meno che produrre in Italia, eppure la Germania ha un delta del 119% (dato del 2022, ndr), cioè positivo». In altre parole, la produzione supera del 19% la domanda.

 

 

Una criticità, quella della presenza di un solo gruppo, che affonda le sue radici negli anni passati, quando, secondo il ministro, si sono fatte scelte di politica industriale poco lungimiranti. «Qualcuno che presiedeva l’Iri ai quei tempi, una sinistra che governava il nostro Paese, preferì cedere l’Alfa Romeo alla Fiat invece di creare un concorrente interno». Un errore, per Urso, perché «il mercato ha bisogno di concorrenza». Per questo il ministro ha annunciato un cambio di rotta nella distribuzione dei sussidi all’automotive. L’obiettivo del governo, infatti, è rilanciare la produzione nazionale, portandola a un milione di veicoli. «Ove non ci fosse un’inversione di tendenza, che riduca il delta tra produzione e immatricolazione» ha annunciato Ur so, «dal prossimo anno tutte le risorse del Fondo automotive (circa un miliardo di euro, ndr) andranno non più a incentivare i consumi ma la produzione. Quindi a chi produce o chi intende produrre di più nel nostro Paese. Per esempio una seconda casa automobilistica». Del resto, il disimpegno di Stellantis è sempre più evidente, come dimostra il crollo del numero di dipendenti, passati dai 51.300 del 2021, anno della fusione tra Fiat -Chrysler e Groupe Psa, ai 42.700 attuali. Nel 2004, invece, i dipendenti erano 71.329 (160mila in tutto il mondo). Senza contare che, dal 1975 al 2012, ha calcolato Federcontribuenti, la Fiat ha ricevuto 220 miliardi di euro dallo Stato. 

 

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