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Stellantis, John Elkann sfida l'Italia: un miliardo non basta

John Elkann

Sandro Iacometti
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O la borsa o l’auto. Oppure, come sintetizza Carlo Calenda, «quanto mi dai per non chiudere». È questo, più o meno, il senso del messaggio recapitato da Stellantis al termine di una giornata che ha visto il governo mettere sul tavolo quasi un miliardo di incentivi all’acquisto per sostenere le aziende dell’automotive.

Riavvolgiamo il nastro. A metà mattinata si tiene il programmato incontro organizzato dal ministro delle Imprese Adolfo Urso con tutti i soggetti coinvolti. Per Stellantis c’è Davide Mele, responsabile Corporate Affairs. Il governo, malgrado gli attriti delle ultime settimane e le accuse agli Agnelli-Elkann (arrivate da più parti e dalla stessa Giorgia Meloni) di voler fuggire dall’Italia, non ha forzato la mano. I soldi, ha spiegato Urso, ci sono. Circa 950 milioni. E solo nel caso non si verifichi l’auspicato cambio di marcia sulla delocalizzazione delle produzioni, l’esecutivo potrebbe decidere di indirizzare i finanziamenti solo alle auto realizzate in Italia (oggi fino all’80% sono andati altrove).

Di più. Urso si dice anche disposto, se il gruppo lo ritiene opportuno, a valutare «una partecipazione attiva dello Stato» come avviene in Francia, recentemente salita a circa il 10% dei diritti di voto in assemblea.

 

 

IL BLUFF - La reazione di Stellantis sembra positiva. Mele assicura che il gruppo ha un forte obiettivo sull’Italia, che vuole raggiungere il milione di auto prodotte di cui si è parlato, che rilancerà la produzione nel nostro Paese di elettriche e ibride, che gli aiuti sono un toccasana per la transizione ecologica.

Che qualcosa non vada per il verso giusto, però, lo si capisce già dalle precisazioni del manager, che considera «il proseguimento a lungo termine di adeguati incentivi alla vendita» solo un tassello di un pacchetto di aiuti e di interventi ben più consistente. «Non ci tiriamo indietro», spiega, «ma riteniamo fondamentali alcuni specifici fattori abilitanti in questo cammino verso l’elettrificazione». Ed ecco l’elenco dei fattori mancanti, al netto degli sconti dal concessionario: lo sviluppo della rete di ricarica per sostenere i clienti e la competitività dei costi industriali, incluso il miglioramento del costo dell'energia, che è chiaramente messo in discussione dall'offensiva cinese con un vantaggio competitivo del -30%».

Insomma, servono pure le colonnine e le agevolazioni sull’acquisto di energia. E non si tratta di condizioni di favore, ma di uno scambio equo. Eh sì, perché «l’Italia sta beneficiando delle dimensioni di Stellantis e del suo portafoglio di 14 marchi iconici» e il gruppo «contribuisce attivamente alla bilancia commerciale italiana, con oltre il 63% dei veicoli prodotti nel Paese esportati all’estero».

 

 

Il discorso è abbastanza chiaro. Ma a scoprire definitivamente la carte ci pensa direttamente lui, il capoazienda Carlo Tavares, che mentre al Mimit è in corso la trattativa, rilascia a Bloomberg dichiarazioni di fuoco. L'Italia dovrebbe fare di più per proteggere i suoi posti di lavoro nel settore automobilistico anziché attaccare Stellantis per il fatto che produce meno, spiega Tavares, «si tratta di un capro espiatorio nel tentativo di evitare di assumersi la responsabilità per il fatto che se non si danno sussidi per l'acquisto di veicoli elettrici, si mettono a rischio gli impianti in l'Italia».

I TAGLI - E per dare più peso alla minaccia il manager individua anche in Mirafiori e Pomigliano le fabbriche che sono più a rischio di tagli. In altre parole, se Stellantis, gruppo privato, con Peugeot, Exor e l’Eliseo come azionisti, dovrà mandare a casa i lavoratori non è colpa del mercato, delle strategie industriali, della gestione manageriale o della concorrenza, ma del governo che non caccia abbastanza soldi per fare in modo che i soci guadagnino a sufficienza. Parole «gravissime» le definiscono i sindacati, che però di fatto si schierano con l’ad di Stellantis, chiedendo al governo un’immediata convocazione a Palazzo Chigi per discutere di come indirizzare al gruppo le somme richieste. La situazione somiglia molto a quella dei parenti degli ostaggi che pretendono il pagamento immediato del riscatto. Il problema, come dice Calenda, è che la storia è la stessa da decenni, «si ricomincia sempre da capo». Come dire, se paghi oggi dovrai pagare anche domani. Così come sembra più che altro una provocazione l’ipotesi lanciata da Urso di far entrare lo Stato nel capitale. Peraltro mai ventilata dagli Agnelli-Elkann. Sulla proposta, però, si avventa Elly Schlein, che invece di scagliarsi contro l’arroganza dei francesi se la prende, manco a dirlo, col governo: «Tavares ha lanciato una sfida, il governo la raccolga. E si prenda sul serio l'ipotesi di una partecipazione italiana». Come se bastasse.  

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