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Bersani che fai, la cacci?

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Maria Grazia Laganà eletta alla Camera col Pd dopo l'omicidio del marito, è stata condannata a due anni per tentata truffa e falso. Lei si è autosospesa (come Penati). Il segretario la farà dimettere o, non essendo del Pdl, userà il solito doppiopesismo?

Andrea Tempestini
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  Matteo Colaninno è un ex giovane di belle speranze che Walter Veltroni strappò nel 2008 a una vita agiata da figlio di papà, candidandolo nelle file del Pd. L'allora segretario del Partito democratico, riempiendo le liste di imprenditori o presunti tali, sperava di intercettare il voto dei moderati. Come è andata a finire si sa: Veltroni è stato sconfitto da Berlusconi, così gli industriali usati come specchietti per le allodole sono stati abbandonati al loro destino. Massimo Calearo, un veneto che come suoneria del telefonino aveva «Faccetta nera», ha lasciato il Pd per il Cavaliere. Colaninno invece è rimasto al suo posto, dimenticato dai suoi stessi compagni di sventura. L'altra sera, però, Bruno Vespa ha deciso di riesumarlo per metterlo a confronto con il governatore della Lombardia. Roberto Formigoni è al centro di una complessa indagine della Procura di Milano sul sistema sanitario della Regione e proprio mercoledì un imprenditore a lui vicino è stato condannato a dieci anni per il crac del San Raffaele. L'occasione perciò era ghiotta per mettere sotto torchio il Celeste - così i fedelissimi chiamano il numero uno del Pirellone - e l'erede dell'uomo che fa volare Alitalia  e correre le motorette della Piaggio si deve essere detto: questo è il modo  per riemergere dalle nebbie del Pd.  Peccato che invece di segnalare le eventuali colpe di Formigoni,  Colaninno si sia subito buttato a chiedere le dimissioni del governatore. Il quale ha avuto gioco facile a rimproverare all'ex giovane deputato del Pd i suoi colleghi di sinistra che non sentono il bisogno di far le valigie nonostante siano stati raggiunti da avvisi di garanzia. Apriti o cielo. L'imprenditore imprestato alla politica si è messo a strillare come un'aquila spennata, rivendicando la diversità del suo partito e dei suoi aderenti. Ora, a prescindere dalle responsabilità di Formigoni, che se esistono saranno accertate dai giudici in un processo, quel che stupisce sono i due  pesi e due misure che ad ogni occasione i compagni adottano a seconda di chi sia nel mirino dei magistrati. Se è di centrodestra, il politico deve andarsene immediatamente, possibilmente passando dalla porta di servizio come i ladri. Se è di sinistra invece ha diritto a tutte le attenuanti e può rimanere incollato alla poltrona in attesa del giudizio. È quel che è successo con Nichi Vendola, sfiorato da più di un'inchiesta sulla sanità pugliese e che i pm di Bari hanno indagato per peculato e falso in seguito a un ospedale costato 45 milioni. Stesso garantismo per Vasco Errani, il governatore dell'Emilia, per il quale la Procura ha chiesto il rinvio con l'accusa di falso ideologico: avrebbe finanziato con un milione la cooperativa vinicola del fratello. Sereni in attesa del pronunciamento della giustizia, i membri del Pd lo sono stati anche in Sicilia, quando si è trattato di sostenere Raffaele Lombardo. Il presidente della giunta regionale, oltre ad alcune altre faccenduole giudiziarie, è stato a lungo sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa, ma fino a che il gip non ne ha disposto l'imputazione coatta, rinviandolo a processo, nessuno degli esponenti del Partito democratico si è fatto scrupolo di sostenerlo. Del resto, che nel partito di Bersani siano garantisti a giorni alterni lo dimostra anche il comportamento tenuto a proposito del caso Penati, cioè dell'ex capo della segreteria del numero uno del Pd. Appena si è sentita puzza di bruciato, il proconsole lombardo di Pier Luigi ha lasciato l'incarico ai vertici, senza mollare però la poltrona di vicepresidente della Lombardia. Quando lo scandalo delle tangenti è finito sui giornali, Penati si è dimesso dall'incarico ma non dallo stipendio e il Pd, invece di cacciarlo, ha accettato la sua autosospensione. Ora, in vista delle elezioni e del rinvio a giudizio, qualcuno ne ha sollecitato l'allontanamento, ma la domanda è giunta fuori tempo massimo. Se già il doppiopesismo di cui abbiamo dato conto induce a diffidare della presunta diversità degli eredi di Enrico Berlinguer, dubitando che ai vertici del Pd stia tanto a cuore la questione morale, sarà interessante vedere ciò che accadrà con la vedova Fortugno. La signora è una deputata del Pd che, il giorno dopo l'assassinio del marito, fu strappata al suo lavoro di dirigente della Asl di Locri, per essere nominata da Walter Veltroni simbolo della lotta antimafia. Il segretario del Pd la volle in lista e ovviamente fu eletta. L'onorevole, che viaggia tra la Calabria e la Capitale sottoposta a uno stretto regime di sorveglianza per pericolo di attentati, è però incappata in un brutto guaio. Il tribunale ieri l'ha condannata a due anni di carcere per tentata truffa, falso e abuso. Maria Grazia Laganà non andrà in prigione, perché per ora la pena è sospesa, dunque da lunedì  potrà ripresentarsi in Parlamento. Che farà Colaninno alla signora condannata, che nel frattempo si è autosospesa dal partito e dal gruppo parlamentare, senza però lasciare il posto alla Camera?  Le chiederà le dimissioni? Oppure quelle le riserva  solo agli indagati, e solo se di centrodestra? E che diranno Bersani o Matteo Renzi, che ieri era in Calabria? Continueranno a sostenere che pur essendo rossi i compagni sono candidi come gigli?   di Maurizio Belpietro  

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