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Non fate i pirla: dovete restare insieme

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I falchi pensano che scaricando Letta otterrebbero il voto, le colombe temono invece l'arrivo di un governo peggiore di questo. Chi ha ragione? A naso, i secondi. Ma il problema vero è un altro: se si dividono, alle urne (quando ci si andrà) faranno un regalo alla sinistra

Andrea Tempestini
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Non so quanto gli elettori di centrodestra abbiano capito di ciò che sta accadendo dentro il Popolo delle libertà. A giudicare da alcune lettere giunte in redazione direi poco. Nessuno, nemmeno il sottoscritto, è riuscito infatti ad afferrare quale sia la ragione che divide le due fazioni, quella dei governativi e quella dei cosiddetti «lealisti». Tutti riconoscono che Berlusconi è il capo indiscusso e sono pronti a confermarlo con ogni onore. Tutti vogliono impedire che sia messo in galera perché lo ritengono ingiustamente condannato. Tutti dicono di volere meno tasse e meno sinistra, confermando dunque il programma con cui il Cavaliere scese in campo vent'anni fa.  Ma allora, se tutti sono d'accordo su tutto, perché si dividono? La questione che li oppone qual è,  la scelta di tenere in vita Letta o tornare a votare? Ma è ovvio che le elezioni sono meglio di un governino gracile che non è riuscito neppure a muovere un passo sulla strada delle riforme e i pochi che ha fatto sono stati solo in direzione dell'aumento della pressione fiscale sul ceto medio. Tuttavia il problema non è se sia meglio proseguire con l'esperimento delle larghe intese o chiuderla lì, tornando alle urne. Il problema è se una volta caduto Letta si scioglie oppure no il Parlamento. L'ala ministeriale sostiene che Napolitano non consentirebbe mai una fine anticipata della legislatura e piuttosto di indire nuove elezioni sarebbe pronto a dimettersi per far posto a Rodotà o a Prodi. L'alta «lealista» invece pensa che quello del capo dello stato sia un bluff e una volta cacciato Letta non ci sia altra possibilità se non restituire la parola agli elettori. Il nocciolo della questione è tutto qui: c'è chi crede che caduto un governo ne faranno un altro e probabilmente sarà peggiore del primo e c'è chi ritiene che liquidate le larghe intese ci sia già un'intesa con Grillo e Renzi per  andare ai seggi. Chi ha ragione? A naso propenderei  più per la prima ipotesi e cioè che l'esecutivo di larghe intese potrebbe essere sostituito da uno di larghe fregature. Tuttavia  stabilire chi abbia ragione non sposta di una virgola un dato di fatto che sia i governativi che i lealisti del Pdl dovrebbero tenere ben presente. Se si analizzano i flussi elettorali degli ultimi vent'anni, cioè da quando Berlusconi è sceso in campo, si capisce una cosa: il centrodestra ha vinto solo se è rimasto unito, mentre quando si è diviso ha consegnato la vittoria alla sinistra. Considerazione banale forse, ma a volte le cose banali sono sottovalutate. Nel 1996 Prodi e i suoi alleati non vinsero perché improvvisamente l'Italia si era spostata a sinistra, ma solo a causa della rottura fra Casa della Libertà e Lega. E grazie alla divisione nel centrodestra, l'Italia dovette pagare la tassa per entrare in Europa. Per via di del divorzio Berlusconi-Bossi, a trattare il nostro ingresso nell'Euro furono Ciampi e Mortadella, con le conseguenze a tutti note. E se non ci fosse stato il soccorso di Cossiga e di Mastella, non avremmo mai avuto neppure un presidente del consiglio comunista, come invece accadde nel 1998 con la nomina di Massimo d'Alema.  Il ragionamento vale anche per il 2006, quando di nuovo Prodi tornò a Palazzo Chigi. Senza le liti con l'Udc, l'uscita di Follini e qualche alleato come Casini e Fini che già davano per persa la partita, probabilmente avrebbe rivinto il centrodestra, che infatti alla Camera fu sconfitto per soli 24 mila voti. Altro che legge elettorale colpevole di impedire la governabilità. Non è il Porcellum che ci impedisce di avere governi stabili, ma le divisioni.  Prendete le ultime elezioni. Nonostante la gioiosa macchina da guerra di Bersani, nonostante l'enorme successo di Grillo, non ci fossero stati Giannino con il suo micro partitino e non ci fosse stata Scelta civica, Berlusconi avrebbe rivinto le elezioni. Non a caso Mario Monti tra i suoi successi più che aver battuto la crisi si attribuisce il merito di aver battuto il Cavaliere: senza la salita in politica del Professore oggi non saremmo messi  come siamo, cioè con una maggioranza a pezzi, indecisa a tutto. Come è facile capire da questi esempi, anche recenti, il tema che il Pdl (o Forza Italia) ha davanti non è se domani si andrà o meno alle elezioni, ma se queste si possano vincere oppure no dando vita a una scissione. Se cioè dividendosi si ottengano più voti di prima. Io credo di no, anzi penso che separarsi equivalga a un suicidio, sia per gli alfaniani che per i berlusconiani. In caso di elezioni il partito fondato dal ministro dell'Interno prenderebbe  qualche punto percentuale (non fa differenza se il 2 o il 10: Monti che pure ha raggiunto la forchetta massima in Parlamento non conta niente) e quello guidato da Berlusconi perderebbe qualche punto percentuale. Risultato: nessuno dei due avrebbe i numeri per governare e fra i due litiganti a godere sarebbe la sinistra. Ha senso tutto ciò? La risposta è no. Divorziare non conviene a nessuno. Dunque, pur detestandosi, governativi e lealisti sono condannati a restare insieme.  Rassegnatevi: uniti si vince, divisi si perde. E gli italiani non hanno voglia di pagare il conto delle vostre sconfitte: nel 1996 fu l'eurotassa, adesso ci toccherebbe l'euro stangata. Su da bravi, non fate i pirla e mettetevi d'accordo. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet

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