Coronavirus, l'ultima lettera del medico di Wuhan che ha sfidato la Cina: "Ho lottato per la verità"
Sebbene ignorati, disprezzati, perseguitati e traditi (anzitutto dall' attuale Vaticano) i cristiani continuano ad essere luce laddove più buie sono le tenebre. Come nella Cina di questi giorni, in cui al totalitarismo comunista si è aggiunta la micidiale epidemia di coronavirus. È il caso del medico cinese Li Wen Liang che per primo lanciò l' allarme per il coronavirus e fu silenziato dalla polizia del regime. Dopo le accuse della polizia, una volta che l' epidemia è diventata evidente a tutti, è stato scagionato, ma è morto lui stesso, il 6 febbraio, per aver subito il contagio curando i malati. La sua tragica vicenda ha provocato un' onda di commozione popolare che ha toccato milioni di persone. E, nonostante la censura, milioni di cinesi in questi giorni hanno manifestato anche la loro indignazione per la sua sorte. Questo medico cristiano è diventato un eroe nazionale. Li, 34 anni, lavorava come oculista in un ospedale di Wuhan, la città dove è divampata l' epidemia del coronavirus. Per primo, a dicembre scorso, si rese conto di qualcosa di anomalo curando dei malati gravi di polmonite (dalle cause ignote) che avevano la congiuntivite. Considerando i sintomi e la precedente epidemia di Sars ritenne che potesse trattarsi di un nuovo coronavirus e avanzò questa ipotesi in un gruppo chat, ovviamente controllato dalla polizia. Le autorità invece di allertarsi per verificare quell' allarme (erano ancora in tempo a fermare il contagio), accusarono il medico di diffondere notizie false che turbavano l' ordine pubblico. Ci vollero alcune settimane perché il regime riconoscesse l' esistenza dell' epidemia, scagionando Li dalle accuse. Il medico tornò al lavoro al suo ospedale e riprese a curare i malati mentre divampava il contagio cosicché lui stesso ne fu colpito ed è morto il 6 febbraio scorso. LA CENSURA Perfino la notizia della sua morte è stata inizialmente censurata (con un tira e molla di conferme e smentite). Sui social, prima di venire cancellati dalla polizia, l' hashtag «È morto il dott. Li Wenliang» ha avuto 670 milioni di visualizzazioni e «Li Wenliang è morto» altri 230 milioni. In tutto 900 milioni. Sebbene censurati sugli stessi social network sono comparsi migliaia di post che commentavano la vicenda di Li sotto un hashtag che (più o meno) significa «Vogliamo libertà di parola» ed erano critiche al regime per la sua gestione della grave crisi. Così sono scattate altre censure, ma l' indignazione tracima egualmente per altre vie. La storia di Li ha impressionato e sdegnato talmente tanto l' opinione pubblica che il governo di Pechino, cercando di placare la rabbia, ha annunciato un' indagine sul suo caso per verificare l' arbitrarietà delle accuse della polizia contro di lui. Alcuni accademici - scrive l' agenzia missionaria Asianews - hanno lanciato un appello: «Non lasciamo che Li Wen Liang sia morto invano». È una lettera aperta che circola sul web ed è condivisa da milioni di persone. In questo appello si chiede «il rispetto della Costituzione, che (in teoria) garantisce la libertà di parola». Quindi si chiede l' abolizione delle leggi che impediscono tale libertà e si propone che il 6 febbraio - data della morte di Li - sia istituita la "Giornata della libertà di parola". Infine si chiede che il governo chieda pubblicamente scusa «per non aver ascoltato, anzi per aver soffocato la voce del dottor Li, definito "un martire" della verità». Asianews cita - tra i firmatari - il prof. Tang Yiming, capo della Facoltà dei classici cinesi all' Università normale di Wuhan: «Se le parole del dott. Li non fossero state trattate come dicerie, se ad ogni cittadino fosse garantito il diritto a dire la verità, non saremmo in questo disastro, non avremmo una catastrofe nazionale con contraccolpi internazionali». UN FIGLIO IN ARRIVO Un altro dei firmatari, Zhang Qianfan, professore di diritto alla Beijing University, ha affermato che la morte di Li Wenliang «non deve spaventarci, ma incoraggiarci a parlare chiaro Se sempre più persone rimangono in silenzio per paura, la morte verrà ancora più presto. Tutti dovremmo dire no alla repressione della libertà di parola da parte del regime». Ciò che ha colpito e commosso è anche l' eroismo e l' abnegazione del giovane medico di 34 anni, sposato, con un figlio di cinque anni e la moglie incinta all' ottavo mese e anche lei contagiata. Perché, nonostante l' ottusità del regime, lui è tornato in ospedale dove ha voluto prendersi cura dei malati per arginare l' epidemia, ben consapevole che questo lo avrebbe esposto a un sicuro contagio. Come infatti è avvenuto. «Il dottor Li Wen» scrive un sito cattolico «ha scelto di donare la sua vita per cercare di salvare quella di altri». Leggi anche: Coronavirus, il racconto di Niccolò: "Le quattordici ore sigillato all'interno di una barella di vetro" All' origine di questa scelta eroica c' è la sua fede cristiana che traspare in uno scritto che ha lasciato, una sorta di testamento spirituale. Vi si legge: «Non voglio essere un eroe. Ho ancora i miei genitori, i miei figli, mia moglie incinta che sta per partorire e molti dei miei pazienti nel reparto (). Quando questa battaglia sarà finita, guarderò il cielo, con lacrime che sgorgheranno come la pioggia». Parla dei malati, «tante persone innocenti» che «anche se stanno morendo, mi guardano sempre negli occhi, con la loro speranza di vita. Chi avrebbe mai capito che stavo per morire?». «La mia anima è in paradiso», scrive Li, mentre «il mio stesso corpo giace sul letto bianco». Poi le sue domande struggenti: «Dove sono i miei genitori? E la mia cara moglie?». Parla della sua nuova casa a Wuhan, «per la quale devo ancora pagare il mutuo ogni mese. Come posso rinunciare? Per i miei genitori perdere il figlio quanto deve essere triste? La mia dolce moglie senza suo marito, come può affrontare le vicissitudini del suo futuro? () Arrivederci, miei cari. Addio, Wuhan, mia città natale. Spero che, dopo il disastro, ti ricorderai che qualcuno ha provato a farti sapere la verità il prima possibile. Spero che, dopo il disastro, imparerai cosa significa essere giusti. Mai più brave persone dovrebbero soffrire di paura senza fine e tristezza profonda e disperata». Il dottore Li Wen Liang conclude il suo toccante scritto con una citazione di san Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora c' è in serbo per me la corona di giustizia del Signore» (2Tm 4, 7-8). La Cina resterà segnata da questa eroica testimonianza cristiana. Avvenuta negli stessi giorni in cui il Vaticano di papa Bergoglio teneva un vertice diplomatico con alti esponenti del regime cinese: il Vaticano in soccorso del governo comunista a cui ha deciso di sottomettere la Chiesa cinese. di Antonio Socci