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Adam, mille chilometri a piedi solo sotto le bombe: sulla mano... Ucraina, la storia del piccolo eroe

Giordano Tedoldi
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Il racconto che segue si potrebbe intitolare Il bambino e la centrale nucleare. Non è un racconto di fantasia, è una storia vera, una delle tante che ci arrivano dal fronte di questa folle guerra, e forse la più utile a capire che cosa sta veramente accadendo in Ucraina. Il bambino ha undici anni, e viveva con la madre Júlia a Zaporizzja (si pronuncia all’incirca Zaporiggia), nel sud-est dell’Ucraina. La mamma è vedova, ha altri figli, e si prende cura di sua madre, invalida. A Zaporizzja c’è una centrale nucleare, non una tra le tante, bensì la più grande d’Europa. È dalla centrale di Zaporizzja che l’Ucraina attinge il venti per cento dell’energia elettrica complessiva. Nelle prime ore di venerdì scorso, le truppe russe hanno attaccato la centrale, c’è stata una battaglia durissima e un palazzo di sei piani nelle vicinanze, dove era situato un centro di addestramento, è andato in fiamme, ma per molte ore l’intervento dei pompieri ucraini è stato impedito dalle truppe russe. In questo scenario apocalittico, in cui l’eventualità di un disastro nucleare incombe, e la propria città è al centro di un attacco massiccio in quanto obiettivo di primaria importanza al fine di mettere in ginocchio la resistenza Ucraina, Júlia, la madre del bambino che vive vicino alla centrale nucleare, ha pensato l’impossibile.

 

 

PIUMINO E BERRETTO
Non potendo lasciare la città assediata insieme ai figli per via della madre malata da assistere, gli ha scritto su una mano il numero di telefono di certi suoi parenti che vivono a Bratislava, gli ha dato un passaporto, uno zaino con il necessario per il lungo viaggio, un biglietto da consegnare al suo arrivo, e l’ha messo su un treno diretto a ovest, alla frontiera con il primo paese confinante fuori dall’Inferno, la Slovacchia. È un viaggio di novecentosessantacinque chilometri, che il bambino ha affrontato da solo, con il suo piumino Adidas blu, il berretto New Balance nero e blu calcato sugli occhi nocciola, una sciarpa celeste, lo zainetto rosso e una busta di plastica. I volontari slovacchi al confine hanno accolto il bambino e letto il biglietto della madre, e l’hanno chiamata: «Tuo figlio è salvo, sta con noi, al caldo, gli abbiamo dato da mangiare e da bere».

 

 

Il ministro dell’interno slovacco ha pubblicato un post su Facebook in cui chiama il bambino “eroe” e lo elogia per il suo «sorriso, sprezzo del pericolo e determinazione». Gli adulti, specialmente i politici, non perdono mai il vizio di vedere anche nei bambini qualcosa che loro stessi vorrebbero avere: eroismo, sprezzo del pericolo, determinazione. Ma forse l’unica osservazione giusta, per il bambino in fuga dalla centrale nucleare assaltata, è quella del suo sorriso, davvero ultraterreno. Un sorriso di speranza in mezzo alla catastrofe come solo un undicenne può permettersi, un undicenne che forse non ha ancora imparato lo sprezzo del pericolo e la determinazione, ma che ha affrontato il lungo, solitario viaggio come un’avventura, sia pure di tipo molto particolare. I bambini di undici anni non vanno in guerra, perché non la capiscono, e dunque nemmeno la fuggono più o meno eroicamente: semplicemente obbediscono a quello che la loro madre, che per loro è tutto, l’amore e la legge, gli dice di fare. E così ha fatto il nostro bambino, ha obbedito alla mamma. La quale, dopo aver saputo che suo figlio era felicemente arrivato al confine slovacco, ha fatto un breve video, diffuso dalla polizia slovacca, in cui esprime la sua gratitudine verso i funzionari della dogana e i volontari slovacchi che si sono presi cura del figlio e l’hanno aiutato a passare il confine. Sono gli uomini di quel “piccolo paese in cui ci sono grandi cuori”, ha detto. Il riferimento alle ridotte dimensioni della Slovacchia va certamente messo in relazione alle sterminate estensioni della Russia, e a quelle pure considerevoli dell’Ucraina, i due paesi in conflitto.Arrivatoin quella nazione piccola ma pacifica e accogliente, il bambino poi è stato messo in contatto con alcuni suoi parenti che vivono a Bratislava, e li ha raggiunti. Fonti locali informano che anche i fratelli del bambino sarebbero arrivati in Slovacchia.

 

 

LA CENTRALE
Ora, a Zaporizzja, in casa sono rimaste solo Júlia e la madre inferma, a aspettare il peggio, o a sperare, o forse, disperate, a non avere più paura di nulla. È un pensiero che si trova nello Zibaldone di Leopardi: solo chi spera teme; chi dispera, non ha più timore di nulla. Nel video, la madre piange, e non è né soltanto gioia per la sorte del figlio, finalmente in salvo, né tutta paura per il suo destino, per quello della madre e di tutti i bambini ucraini, cui accenna alla fine del suo messaggio. È il pianto di chi affronta, con poche forze, una sventura smisurata, la più grave della propria vita, affidandosi alla carità di altri uomini, implorandola loro compassione e il loro soccorso. Ed è anche il pianto di una madre che, perso il marito, ha ora dovuto separarsi anche da tutti i suoi figli, mettendo tra sé e loro la minima distanza di sicurezza: poco meno di mille chilometri. Quando li rivedrà? Li rivedrà? Domande angosciose cui nessuno può dare risposta certa. Tutto dipende dalla guerra: come in una tragedia di Eschilo, in Ucraina è la guerra oggi a decidere le cose più importanti, a segnare il destino degli uomini, delle donne, e dei bambini che il caso ha voluto crescessero vicino alla più grande centrale nucleare d’Europa. E quando quella specie di sole che irraggiava la sua elettricità in tutto il paese è diventato campo di battaglia, i bambini hanno dovuto prendere il treno da soli, per la prima volta.

 

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