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Russia, "conseguenze irreversibili": la minaccia all'Italia sul gas, tra due mesi rischiamo il caos

Sandro Iacometti
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Tranquilli, ha detto qualche tempo fa il ministro Roberto Cingolani, «se la Russia dovesse chiudere domani il rubinetto del gas avremmo scorte per otto nove settimane». Ecco, forse possiamo iniziare a contare i giorni. Eh sì, perché è vero che a Putin i soldi del metano (quasi 1 miliardo al giorno da tutta la Ue, 80 milioni dall'Italia) fanno comodo, ed è vero che lasciare a secco il nostro Paese potrebbe essere considerato un vero e proprio atto di guerra contro un Paese della Nato (lo stop alle forniture provocherebbe «una tragedia sociale», ha detto sempre Cingolani), ma la minaccia questa volta è reale, non ipotetica. 

 

Dopo aver accusato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini di aver voltato le spalle a Mosca che ci aveva aiutato durante la pandemia e di essere «uno dei principali falchi e ispiratori della campagna antirussa nel governo italiano», il direttore del Primo dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, Alexei Paramonov, ha anche fatto capire, senza troppi giri di parole che Vladimir Putin è pronto ad interrompere i flussi. 

Se l'Italia continuerà ad appoggiare le sanzioni, ha spiegato, ci saranno «conseguenze irreversibili». Quali? È presto detto. Mosca, ha proseguito Paramonov, «non ha mai utilizzato le esportazioni di energia come strumento di pressione politica. Ma sappiamo che l'Italia è molto preoccupata per il futuro di queste consegne» perché «l'abbandono di meccanismi affidabili di trasporto dell'energia che si sono sviluppati nel corso di molti decenni avrebbe conseguenze estremamente negative per l'economia italiana e per tutta la popolazione». 

 

Sarà pure un bluff, però appare chiaro che la «tragedia» ventilata da Cingolani e il «razionamento» ipotizzato solo qualche giorno fa da Mario Draghi non sono più solo un trastullo da salotto, uno spauracchio utile a far fare bella figura nei talk show agli esperti di energia. Intendiamoci, l'idea di fare a meno di quei 29 miliardi di metri cubi di metano (sui 70 del nostro fabbisogno totale) che importiamo dalla Russia e di liberarsi dalla dipendenza energetica verso Mosca è qualcosa di cui si sta concretamente discutendo da settimane sia a Bruxelles sia a Palazzo Chigi, ma l'ottica temporale è quella dei due o tre anni, qualcuno dice anche cinque. E anche i più ottimisti come Cingolani e l'ad dell'Eni Claudio Descalzi, che solo un paio di giorni fa ha rassicurato gli italiani, continuano a parlare di come ci procureremo le riserve necessarie ad affrontare il prossimo inverno e quelli a venire. Fino ad ora il problema principale era quello di riempire gli stoccaggi questa estate, contando anche su una diversificazione di approvvigionamenti, principalmente dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Ma se Putin dovesse davvero girare la manopola dei tubi domani? 

I depositi, ha spiegato il ministro della Transizione ecologica, che però non ha escluso la necessità di «un contingentamento della domanda», consentirebbero di arrivare fino alla primavera, quando la temperatura più mite farà abbassare la domanda energetica e il governo dovrebbe essere in grado, e siamo sempre nel campo delle teorie, di sostituire circa la metà del gas russo. Bene. Ma l'altra metà? Nessuno lo sa. Cingolani ha promesso che in ogni caso «non fermeremo le macchine» però ha pure ammesso che «dovremo fare sacrifici». Si tratta di capire quali. Tenuto conto, come ha ricordato ieri il direttore generale dell'Ice, Roberto Luongo, che in ballo non c'è solo l'energia, ma una lunga catena di approvvigionamenti di materie prime e «non è facile andare su altri Paese a recuperare queste forniture». Insomma, come ha detto Draghi, «non è ancora il momento di lanciare allarmi», però «dobbiamo essere pronti a farlo». Ora più che mai.

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