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Taiwan, Dottori: "Così Pelosi ha umiliato la Cina, cosa dobbiamo aspettarci"

Giuseppe Dottori  

Maurizio Stefanini
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La Speaker della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi è andata a Taiwan in un momento di tensione fra Washington e Pechino. Ne parliamo con Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes e già docente di Studi Strategici presso la Luiss-Guido Carli.

 

 

 

Pelosi ha fatto bene?
«Dal punto di vista americano, molto probabilmente sì. Le cose cambiano se invece si guarda alla stabilità complessiva del sistema internazionale. Soprattutto in prospettiva. Perché, stando a quanto si comprende al momento, la Cina sta avendo la peggio dopo aver minacciato "serie conseguenze". Probabilmente, a Pechino la vivono come un'umiliazione. La prima da quando i comunisti sono al potere. Pechino pianifica a lungo termine, al contrario di Washington, che si muove su un orizzonte quadriennale. Speriamo bene».

Ma Taiwan rischia davvero di fare la fine dell'Ucraina? O la Cina della Russia?
«Sono due scenari del tutto differenti. Taiwan è un'isola potentemente armata. Invaderla non sarebbe facile, specialmente avendo gli Stati Uniti di fronte. Perché la garante ultima dell'indipendenza di fatto di Taipei è proprio la Marina americana, che gode di una supremazia assoluta, anche se adesso non può più operare sotto le coste cinesi. Ucraina e Russia hanno invece un lungo confine terrestre.E nelle fasi di avvicinamento allo scontro il Presidente degli Stati Uniti era stato molto chiaro nell'escludere un concorso americano diretto alla difesa dell'Ucraina. Un segnale ancora più chiaro era venuto dal ritiro dei consiglieri militari che americani e inglesi avevano sul suolo ucraino. Nei pressi di Taiwan c'è invece la portaerei Reagan. E si è mossa anche la caccia giapponese, un fatto da non trascurare».

La posizione degli Usa che difendono Taiwan riconoscendo la Cina è curiosa. Ma non è la contraddizione di tutto il mondo nel confronto tra un Paese democratico messo ai margini e un colosso tirannico con cui tutti vogliono fare affari?
«La scelta fu fatta molto tempo fa. Per convenzione, esiste una sola Cina che entrambe, Pechino e Taipei, pretendono di rappresentare nella loro interezza. A un certo punto, venne deciso che il riconoscimento spettasse alla Repubblica Popolare anziché alla Repubblica di Cina: ma gli americani si riservarono il diritto di difenderla. Questa situazione è sopravvissuta alla riconciliazione tra Pechino e Washington avvenuta ai tempi di Nixon. Non credo sia all'opera una logica economica: la politica e la strategia prevalgono sempre. Quando ciò non accade, si scompare dalla mappa geografica».

Un autore oggi di culto come Yuval Harari in uno dei suo best-seller ha scritto che oggi non convengono più guerre, perché costano troppo. La ricchezza oggi la creano cose come Silicon Valley e non puoi saccheggiare Silicon Valley. Però oggi si teme che la Cina possa togliere all'Occidente i chip taiwanesi. Come si scopre che la Russia ha creato una emergenza alimentare mondiale col bloccare l'export agricolo ucraino...
«Le guerre non sono mai state convenienti. Sono rischiose anche per i conquistatori, che si augurano sempre di essere accolti da folle festanti, invece di combattere. In Italia, il rapporto tra politica ed economia è spesso travisato, a causa di un pregiudizio economicista duro a morire. Il potere costa, consuma risorse. Non serve a generare ricchezza, ma a soddisfare ambizioni di status. È peraltro vero che il metodo di rappresentanza degli interessi in politica può limitare l'autonomia del decisore, specialmente nei sistemi più deboli. A quanto pare, la Cina sta riconoscendo di non poter affrontare militarmente gli Stati Uniti in questa fase e perciò prova a farsi valere ricorrendo alle armi economiche: negando a Taiwan le sabbie che servono per produrre i semiconduttori. Vedremo come andrà a finire. Probabilmente subiremo rincari sui prodotti a tecnologia più avanzata».

 

 

 

Il problema attuale è che a Taiwan è al potere il partito che vorrebbe l'indipendenza definitiva? O il problema ci sarebbe anche col Kuomintang al governo?
«Il problema è l'ascesa geopolitica della Cina congiunta alla sua volontà di proiettarsi anche verso il Pacifico e gli oceani del mondo. È una sfida alle basi della supremazia globale statunitense. Taiwan è una pietra d'inciampo come l'Ucraina, sulla quale si gioca una partita che va molto al di là della preservazione dell'indipendenza di Kiev, coinvolgendo l'Europa, che gli uni vorrebbero separare dal suo retroterra minerario, la Russia, e gli altri, invece, dividere per sempre dall'alleato americano».

Pure Taiwan presenta grosse contraddizioni. Varie analisi lo valutano come uno dei Paesi al mondo dove più la democrazia è cresciuta negli ultimi anni, e lo considerano più democratico della stessa Italia, oltre che di Stati Uniti, Francia, Regno Unito o Germania. Però la sua costituzione è ancora quella della Cina nazionalista, con Nanchino capitale. Ma il bello è che se la cambiasse Pechino si arrabbierebbe ancora di più...

«Per forza, perché viene meno il principio dell'unicità della Cina assieme a tutta l'architettura di relazioni che è stata costruita attorno a questa finzione. Si tratterebbe della rottura dello status quo, che Pechino vorrebbe risolvere a tempo debito riassorbendo la sua provincia "ribelle" che, ricordiamo, è ciò che è perché vi si rifugiarono i nazionalisti sconfitti nella guerra civile».

Quello della Pelosi è stata vista come un colpo di testa, forse con motivazioni elettorali. È così o Washington sta davvero cercando lo scontro?

«È difficile che la Speaker della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti abbia fatto un passo del genere senza consultarsi con l'Amministrazione Biden, che si è occupata della sicurezza della sua trasferta. Direi che si è trattato di una mossa molto accuratamente ponderata, per affermare il principio che gli Stati Uniti non si fanno intimorire da nessuno, meno che mai da una potenza che non è ancora in grado di sfidarli sul piano militare. Il viaggio è infatti avvenuto in un momento in cui la correlazione globale delle forze non offre molti margini di risposta ai cinesi, che non a caso per ora rispondono con misure sanzionatorie. È meno chiaro se il calcolo strategico fatto a Washington abbia messo in conto le conseguenze a più lungo termine di questo viaggio della Pelosi: a Pechino qualcuno vedrà negli avvenimenti di questi giorni un evento che si aggiunge al "secolo delle umiliazioni"».

 

 

 

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