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Israele, "perché gli 007 non hanno fallito": l'esperto stravolge lo scenario

Mirko Molteni
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A sentir parlare di “flop” dell’intelligence israeliana, l’esperto di sicurezza Gianpiero Spinelli, ex-paracadutista della Brigata Folgore che ha lavorato per il Dipartimento della Difesa Usa, anche in Iraq, e attualmente per la compagnia Stam, non ci sta.

Secondo lei gli 007 israeliani non hanno nulla da rimproverarsi?
«È ingrato accusare l’intelligence israeliana d’aver fallito nel prevedere l’attacco di Hamas. Già nel 2003, lavorando nel settore della sicurezza, sono stato invitato dagli israeliani ad accompagnare la polizia di confine israeliana, la Magav, in pattugliamento in Cisgiordania. Conosco l’intelligence israeliana, che fa sempre un lavoro egregio. Conta non solo sul Mossad, perle operazioni estere, sullo Shin Bet, per il controspionaggio e sicurezza interna, e sull’Aman, l’intelligence militare. Ci sono reparti poco noti, come la Yamas, una polizia clandestina per operazioni sotto copertura. C’è poi la Duvdevan, unità speciale dell’esercito. Tutta questa comunità di intelligence fa ancora scuola nel mondo e il 90% delle dottrine antiterrorismo deriva dall’esperienza israeliana. L’attività di sicurezza di Israele si misura in una media fra 60 e 70 attentati sventati in anticipo ogni mese, vale a dire 2000 all’anno! Ma Gaza è di per sé una realtà difficilissima per l’intelligence».

 

 

 

Gaza è in effetti una giungla urbana. Quali i problemi?
«La Striscia di Gaza è un teatro multidimensionale, la raccolta d’informazioni avviene su 4 livelli: terra, aria, mare e sottosuolo. Le gallerie sono un fattore chiave per Hamas e offrono copertura all’80% della sua attività, compresa la fabbricazione di razzi. Hamas ha una rete di tunnel lunga 100 km, con profondità massima di ben 70 metri. Osservazione e intercettazione elettronica non arrivano laggiù. Anche avvalersi d’informatori è difficile perché all’interno della Striscia non può avvenire alcun incontro con loro, bisogna farli uscire. E un’operazione così ampia e complessa non poteva essere prevista. Era troppo estesa, come estese sono le ramificazioni all’estero di Hamas. Non parlo solo dei 100 milioni di dollari annui con cui l’Iran finanzia il movimento. Hamas conta su Siria e Qatar. E ritengo anche su parti dell’intelligence egiziana, che avrebbe vantaggi dai traffici che dal Sinai introducono di tutto nella Striscia. Ma ci sono appoggi anche in Sudamerica».

Dunque Hamas ha una connection sudamericana?
«In America Latina sono presenti sia Hamas, sia Hezbollah. Io sono stato in passato, per lavoro, nell'area dei tre confini, tra Brasile, Argentina e Paraguay, presso Ciudad del Este, sul fiume Paranà. Regione ideale per i traffici illegali. Da lì passa di tutto, armi, droga, donne. Hamas è attiva laggiù nel riciclaggio di denaro. Ha accordi con i cartelli della droga in base ai quali i palestinesi forniscono loro assistenza militare e in cambio ottengono una parte della droga, che poi viene rivenduta dai terroristi per finanziarsi. Non a caso, qui c’è la più importante stazione sudamericana del Mossad».

Tornando alla mancata previsione dell’attacco, non ci sono state avvisaglie?
«Il via all’operazione sarebbe stato dato in un vertice segreto nell’agosto 2023, a Beirut, in Libano, fra emissari di Hamas, della Jihad Islamica e di Hezbollah. Le decisioni importanti sono state prese fuori Gaza. Poi, il 6 ottobre, vigilia dei massacri, c’erano stati attacchi cibernetici agli apparati di sicurezza, ma l’indizio non era sufficiente. Non si poteva pensare a un attacco su obbiettivi multipli da parte di migliaia di terroristi. Un copione simile a quello degli attentati dell’Isis al Bataclan e in altri luoghi di Parigi, nel 2015. Hamas ha compiuto uno sforzo simile nel concentrare in poco tempo molte azioni che hanno saturato le misure di sicurezza. Il Mossad e gli altri servizi di Israele, come tutti i servizi del mondo, non sono onniscienti. E sono servizi vincolati a regole democratiche e al decisore politico».

 

 

 

Come valuta l’ingresso dell’esercito israeliano a Gaza?
«Credo che a Gaza ci siano già agenti che assistono dal suolo i bombardamenti, illuminando i bersagli per le bombe a guida laser sganciate dagli aerei. L’intervento terrestre israeliano sarà qualcosa di nuovo, che riscriverà le dottrine per la guerra in ambiente urbano. E gli americani, dalle loro navi, daranno una mano. Da due anni la Nato s’addestra a nuovi scenari della guerra urbana, specie alla lotta nei tunnel sotterranei».

Una milizia privata nei kibbutz avrebbe potuto diminuire le vittime?
«In linea di massima sì, ma dipende dal numero degli attaccanti. In qualche kibbutz c’è stata resistenza, ma se sei in 10 contro 200, soccombi. Da contractor in Iraq, nel 2004 presidiavamo una centrale elettrica vicino a Kirkuk. Venimmo attaccati da molti ribelli, ma resistemmo per due ore, tenendo un’area che come estensione poteva paragonarsi a un kibbutz. L’esercito americano, distratto da un attacco diversivo, arrivò dopo due ore ma noi resistemmo fino all’arrivo dei rinforzi e il piano nemico fallì». 

 

 

 

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