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Israele-Hamas, "guardate a Ortona '43": ecco cosa accadrà a Gaza

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Roberto Patricelli
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«Fu la prima battaglia casa per casa. E da essa molto imparammo». Winston Churchill scrisse nella sua Storia della seconda guerra mondiale, che gli valse il Premio Nobel nel 1953, di aver imparato a non ripetere mai più e a risparmiare all’esercito britannico un’esperienza simile a quella di Ortona, nel dicembre 1943. Gaza City, 80 anni dopo, aspetta l’attacco di terra della fanteria e dei corazzati israeliani per sradicare Hamas, così come in quel Natale di guerra i fucilieri canadesi mossero all’attacco della cittadina adriatica, trincerata dai paracadutisti tedeschi, per sradicare il nazismo dall'Europa. Quella battaglia urbana, definita «di furore medievale», per decenni è stata studiata nelle scuole di guerra come archetipo dei combattimenti casa per casa.

Il terreno di scontro, appena 500 metri lineari, venne accuratamente preparato dai genieri della Luftwaffe per sigillare quel tratto della Linea Gustav da cui il Maresciallo Bernard Law Montgomery intendeva sfondare, arrivare a Pescara e prendere Roma alle spalle, sognando la gloria dei Cesari e il trionfo nella prima capitale dell’Asse. L’obiettivo strategico si risolse in un inutile obiettivo tattico. Oggi, a Gaza, l’obiettivo tattico è la premessa di un obiettivo strategico, la distruzione di Hamas e di quello che rappresenta per il mondo civile, e la liberazione degli ostaggi israeliani. La battaglia di Ortona divampò più per motivi politico-propagandistici e di prestigio che militari: il Feldmaresciallo Albert Kesselring non voleva perderla perché Montgomery voleva conquistarla e i britannici volevano prenderla perché i tedeschi la difendevano strenuamente. Adolf Hitler da Berlino pretendeva di essere aggiornato continuamente sulla battaglia, come se da essa dipendessero le sorti della campagna d’Italia e della guerra.

SENZA ALTERNATIVE
Dopo la ritirata notturna dei paracadutisti, il 28 dicembre, di fronte al disastro materiale e morale e alle alte perdite in vite umane, negli alti comandi alleati circolò la seguente raccomandazione: «se vi chiedono di Berlino, rispondete che non ci interessa». L’attacco a Gaza non aveva alternative credibili o praticabili dopo la mattanza del 7 ottobre dei macellai di Hamas: non interessa la città ma quello che rappresenta per il terrorismo islamico e per Israele. I tedeschi dopo la sconfitta nella battaglia del Sangro che rischiava di sgretolare la Linea Gustav non ancora compattata si erano asserragliati a Ortona in uno scenario urbano di distruzioni che già avvantaggiava i difensori, e ancora di più chi le aveva escogitate tutte per far pagare sanguinosamente l’avanzata.

Case abbattute a scacchiera, per rendere le strade impraticabili ai carri armati Sherman e vanificare la superiorità nemica in uomini e mezzi; montagne di macerie disseminate di mine antiuomo e anticarro e di trappole esplosive; tratti di annientamento sotto il tiro incrociato delle mitragliatrici MG42 o sotto controllo dei tiratori scelti. Uno scontro combattuto non solo casa per casa, ma addirittura stanza per stanza nello stesso stabile e persino all’arma bianca. Anche nella piccola Ortona di 10.000 abitanti, come a Gaza City con oltre 2 milioni di palestinesi, c’erano civili. I tedeschi avevano provato a liberarsene e a risparmiarli ordinando lo sfollamento, ma non tutti gli italiani avevano voluto approfittare di quelli che oggi si chiamano corridoi umanitari, perché non sapevano dove andare. Col pochissimo cibo in cantina, senza energia elettrica e al freddo di un inverno particolarmente impietoso, niente acqua e solo vino e aceto per lavarsi e disinfettarsi, uomini, donne, anziani e bambini in promiscuità sperarono che la bufera passasse subito.

HAMAS DISUMANA
Contrariamente a una diffusa vulgata, i paracadutisti tedeschi fecero quanto possibile per preservare la vita dei civili, ma il destino decise diversamente. In un solo caso si ebbe una strage, quella al Villino Primavera, che in una esplosione cancellò 34 vite innocenti: i rifugiati, precedentemente evacuati, erano tornati di soppiatto, si mantennero in silenzio nella cantina e non risposero all’ultimo controllo dei tedeschi prima di far brillare le cariche esplosive. Fu un massacro. La torre del villino era un riferimento per il tiro dell’artiglieria britannica che martellava l’abitato. Una pagina di diario di un assediato che provò a soccorrere i sopravvissuti intrappolati sotto un mare di macerie: «Non ho potuto fare niente per le bombe e perché eravamo solo tre persone. Così li abbiamo lasciati morire disperati». Un’altra testimonianza parla di «senso di liberazione da un pensiero angoscioso che attanagliava le nostre menti. Ormai sono morti, non soffrono più, forse la morte è migliore della sofferenza».
Il corrispondente di guerra Christopher Buckley il 25 dicembre scrisse questo al padre: «In Italia scopriamo una nuova tecnica: la battaglia casa per casa. Ogni zona della città è coperta dal fuoco tedesco, e per ripulire la città è necessario combattere edificio per edificio, secondo una tecnica sviluppata dai canadesi chiamata mouse holing.

I soldati avanzano casa per casa aprendo piccoli varchi nei muri per raggiungere ogni edificio vicino, e poi procedono stanza per stanza. Questa è una progressione da agonia, ma questo metodo consente di ripulire interi blocchi senza mettere una volta piede in strada». Un tenente tedesco dirà che quello che era capitato nella battaglia casa per casa «non ci è capitato più da nessuna parte». Ogni metro di terreno costa sangue e dolore. Il punto di sbocco degli incanalamenti forzati per le fanterie viene battezzato macabramente dai canadesi killing ground. Neppure l’ospedale è risparmiato dai combattimenti e solo per miracolo all’arrivo dei carri armati canadesi già falcidiati da mine e colpi di Panzerfaust non avviene un massacro: il pianterreno è interamente occupato dai civili, circa 500 persone. Così viene descritto da uno di essi: «la legnaia è stipata di gente sdraiata alla rinfusa (...); stanze dei bagni pubblici: già occupate; al ripostiglio del carbone, gente pure là; ovunque pianto e terrore». Un pioniere paracadutista tedesco di 17 anni, mezzo secolo dopo, racconterà di essere stato appostato dietro all’orologio del municipio come tiratore scelto, con due nastri di proiettili incrociati sul petto «come i rivoluzionari messicani».

MINE E BOMBE
Quanto la battaglia terminò il 28 dicembre, con una silenziosa ritirata notturna, era rimasto con «soli 4-5 colpi in una giberna». Sul terreno di scontro tra canadesi e tedeschi erano rimasti circa tremila caduti, metà dei quali civili italiani. L’artiglieria alleata, terrestre e navale, non aveva fatto sconti nel bombardare l’abitato, tanto che di notte pareva vi fosse sempre una luce a illuminare le miserie umane e gli orrori della guerra. I bombardamenti nel secondo conflitto mondiale, d'altronde, furono sempre indiscriminati: Rotterdam, Londra, Coventry, Berlino, Amburgo, la città-ospedale di Dresda incenerita, Hiroshima, Nagasaki atomizzate. Il resto è filosofia, non storia. Nella piccola Ortona le mine, soprattutto quelle in cassette di legno che sfuggivano ai metal detector, continueranno a riscuotere il tributo di sangue con morti e mutilati anche dopo che i canadesi accolti come liberatori se n’erano andati. Gli italiani li consideravano tali anche durante i bombardamenti. Uno dei caduti, il più giovane di loro, aveva appena 16 anni, ed è rimasto per sempre nella terra straniera che era andato a liberare ritrovandosi nell’inferno della battaglia casa per casa in quella che venne subito ribattezzata «La piccola Stalingrado». 

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