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Indi Gregory, lo Stato etico padrone di vita e morte ribalta gli stessi principi su cui si fonda

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Indi Gregory

Corrado Ocone
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La vicenda della piccola Indi tocca una questione di principio. Essa concerne nientemeno che la possibilità che lo Stato vorrebbe darsi, in questo caso per mezzo del potere giudiziario, di decidere sulle nostre vite, anzi sulla nostra stessa esistenza. A essere superato è quel confine fra pubblico e privato su cui si fonda il liberalismo politico.

Un potere che si occupi direttamente della vita, una biopolitica come oggi si dice, non è infatti concepibile per un liberale: è un qualcosa che pertiene agli Stati autoritari e che è stato tragicamente sperimentato e portato alle estreme conseguenze nei regimi totalitari del secolo scorso. Ma, a ben vedere, la pretesa biopolitica, nel caso di Indi, non oltrepassa semplicemente un confine: contraddice addirittura il principio stesso su cui si fonda lo Stato moderno, di cui Hobbes e Locke, da sponde diverse, sono stati i massimi teorici. Lo Stato infatti è una costruzione artificiale, non esiste “in natura”. Ad esistere sono solo gli individui, ovvero gli uomini in carne ed ossa considerati con i loro diritti fondamentali, che per Locke sono la vita, la libertà e la proprietà.

 

IL LEVIATANO - Ma anche Hobbes è chiaro: il diritto a vivere per lui non era solo inalienabile, ma era anche il vero e unico motivo per cui, venuto meno l’ancoraggio religioso, un potere pubblico atto a tutelarlo e a garantirlo si rendeva necessario.
Di qui la concezione del Leviatano, del grande “mostro” che si giustificava come artificio volto ad evitare che il più forte scannasse il più debole in una “naturale” guerra di tutti contro tutti. Ad esso, detentore ufficiale della forza legittima, tutto era permesso, ma solo fin quanto non venisse meno al suo compito di protezione della vita. Hobbes arrivò ad ammettere logicamente il “diritto di resistenza” dei cittadini contro uno Stato che più non ottemperasse a questa sua ragione costitutiva o ragion d’essere.

LOGICA CAPOVOLTA - Il caso Indici mette di fronte perciò ad un vero e proprio capovolgimento di questa logica, contraddicendo in buona sostanza quella modernità politica che nel bene più che nel male ha segnato la nostra storia negli ultimi secoli. Certo, anche lo Stato moderno può negare la vita, anche semplicemente arrestando un suo cittadino, ma può farlo solo quando l’innata libertà di un individuo arrivi a ledere quella di un altro. Ora lo Stato si arroga invece il diritto di negare e sopprimere la vita di chi non solo non mette in discussione la vita altrui, ma è in una oggettiva condizione di debolezza e di impossibilità a difendersi.

 

Si dirà che una vita come quella che presumibilmente toccherà alla piccola Indi non è “degna” di essere vissuta. Ma con questa affermazione dal vago sapore umanitario si imbocca una strada molto pericolosa che, se percorsa fino in fondo, può veramente farci sprofondare nell’abisso. Non esiste infatti un parametro scientifico per definire la dignità di una vita, misurarla e quantificarla oggettivamente. Né soprattutto può stabilirla un soggetto esterno.
 

RISCHI INCALCOLABILI - Se ammettessimo il contrario, spianeremmo inevitabilmente la strada a chi, alzando sempre di più l’asticella e mai raggiungendo quella perfezione che per fortuna non è delle cose umane, non esiterebbe presto a sopprimere sempre più vite umane giudicandole “inadatte”. A ben vedere, rispetto al caso di Indi, sarebbe solo una questione di proporzioni, ma il principio rimarrebbe lo stesso.
È perciò che a ragione si dice che sui principi non si transige: se molli la presa, tutto è posibile. E dispiace, anzi è veramente preoccupante, che certi basilari capisaldi etici siano messi in discussione proprio nella patria del liberalismo e dello Stato di diritto moderno.

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