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Sudamerica, conflitto eterno per il petrolio e i quattrini

Marco Patricelli
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Non vale solo per Inghilterra e Stati Uniti il paradosso di Winston Churchill sui «due popoli divisi dalla stessa lingua». Vale ancor di più nell’America latina, dominata dallo spagnolo, ma anche dall’instabilità politica e da nazionalismi più o meno artificiali alle cui spalle spesso si sono stagliati robusti interessi politici e movimenti più o meno occulti delle grandi potenze e degli altrettanto grandi potentati economici. La crisi tra Venezuela e Guyana sull’ormai bisecolare contesa sull’Esequiba, diventata trilaterale con l’ingresso precauzionale ma a gamba tesa del Brasile, da un lato soddisfa il desiderio di Nicolas Maduro di compattare con la legittimazione popolare di un referendum il fronte interno flagellato dalla crisi economica con la carta più facile e scontata del condiviso sentimento di annessione, dall’altro quello di impadronirsi di importanti risorse petrolifere e minerarie su un territorio che costituisce i due terzi della Guyana.

 


La tensione di questi giorni richiama prepotentemente alla memoria la guerra dimenticata per il Chaco che imperversò tra il 1932 e il 1935 tra la Bolivia e il Paraguay, con effetti disastrosi da ogni punto di vista. Dietro ai motivi di prestigio nazionale c’erano quelli di sfruttamento di una zona desertica e inospitale che si riteneva però ricca di petrolio. L’americana Standard Oil e la britannica Royal Shell parteggiavano rispettivamente per la Bolivia e per il Paraguay, aspettandosi vantaggi di esplorazione e trivellazione derivanti dall’aver sostenuto il Paese vincitore. Durante i prodromi della crisi l’industria delle armi, soprattutto europea (anche dell’Italia sul versante paraguaiano), aveva fatto affari d’oro con enormi vendite di materiale bellico; per di più, su un campo neutro e lontano, si sarebbero scontrate due dottrine militari che facevano capo alla Francia (Paraguay) e alla Germania (Bolivia) che dall’altra parte del globo gettava i semi della rinascita della Wehrmacht, con tutto quello che ne sarebbe derivato con la seconda guerra mondiale. Quel conflitto, per quanto indicibilmente aspro, era tra due nazioni povere e di poveri, che però non si risparmiarono un bagno di sangue sul campo di battaglia e neppure un grammo d’oro per dotarsi di aerei, carri armati, lanciafiamme, mitragliatrici e istruttori europei, simboli di una modernità che non apparteneva ai contadini, ai meticci e agli indios sudamericani. Uno dei principali consiglieri militari del presidente boliviano Daniel Salamanca era stato Ernst Röhm, poi allontanato per problemi derivanti dalla sua omosessualità e destinato a irreggimentare le SA con cui Hitler aveva scalato il potere.

 

 

 

Era stato il Trattato di Lima del 1929 a innescare la crisi, con le voci di scoperte di petrolio nella zona delle Ande orientali, oltre alla mancanza di uno sbocco al mare per la Bolivia, al pari del Paraguay, peraltro, che nell’Ottocento si era visto dimezzare il territorio con le sconfitte nelle guerre con Brasile e Argentina. I primi scontri armati, a livelli di scaramucce, si erano manifestati già nel 1927, e poi nel 1928. L’apparente pausa nei combattimenti era stata strumentale a organizzare gli eserciti e a dotarli di armi moderne, parte delle quali, come i carrarmati, quasi del tutto inutili in quello scenario. Il 15 giugno 1932, con l’attacco boliviano a un fortino sul lago Pitianutà, divamparono le ostilità. Il Paraguay riversò sul campo di battaglia tutto quanto poteva mobilitare e che aveva negli arsenali, confidando altresì nelle linee di rifornimento più corte e più rapide per l’uso della ferrovia. L’esercito boliviano era guidato dal ministro della guerra, il tedesco Hans Kundt.

 

L’episodio più significativo e inquietante della guerra risale al novembre 1934, col tentativo di Kundt di cogliere alle spalle l’esercito paraguaiano inviando una colonna di diecimila uomini nel Gran Chaco per annientare una volta per tutte il combattivo nemico e farla finita col conflitto. Doveva essere la mossa risolutiva, ma il Paraguay rispose con la mossa della disperazione: il generale José Féliz Estigarribia, avvertito da una spia della manovra boliviana, inviò in fretta e furia una colonna per distruggere l’unico punto di rifornimento di acqua, il pozzo Irindague. Sul filo dei minuti verrà fatto saltare poco prima dell’arrivo dei boliviani, annientando senza sparare un solo colpo un esercito impossibilitato sia a tornare indietro sia ad avanzare. Oltre diecimila uomini morirono così di sete nel deserto.

 

Il 12 giugno 1935 venne firmato il cessate il fuoco, con i paraguaiani che controllavano ormai quasi tutto il territorio del Chaco. Nel 1938 verrà firmata la tregua a Buenos Aires. Due terzi (tre quarti secondo altri) dei territori contesi vennero assegnati al Paraguay, nominalmente vincitore, che aveva mobilitato 150.000 soldati (l’intero esercito, con una popolazione che contava poco meno di 900.000 anime) e ne aveva persi circa un terzo oltre a quasi 70.000 civili. Un pesante salasso demografico. La Bolivia aveva perso circa centomila soldati tra morti, feriti e prigionieri, su una popolazione di poco più di due milioni. La linea di frontiera emersa dalla guerra e dagli accordi di Buenos Aires sarà ratificata il 27 aprile del 2009. Quanto alle ricchezze petrolifere e minerarie, il Paraguay ha visto il frutto di quel sanguinosissimo conflitto con la scoperta di giacimenti di gas e di petrolio solo nel 2012 e nel 2014. La Bolivia in tempi recentissimi può usufruire dei più grandi giacimenti di gas dell’America latina, dopo il Venezuela, nel residuo del Chaco che le era stato assegnato. Lì dove dal 1934 le ossa calcinate dal sole di diecimila soldati impazziti e uccisi dalla sete sono il monito di quella guerra. 

 

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