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Israele, l'errore di chi muove l'accusa di genocidio: falsità storico-giuridiche

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Francesco Carella
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Uno dei maggiori linguisti del Novecento, Roman Jacobson, sosteneva che «la confusione semantica quasi sempre coincide con l’ignoranza dei fatti». È precisamente quel che sta accadendo in Italia dacché Israele ha legittimamente risposto all’attacco terroristico perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso. Il riferimento è al distorto richiamo del termine genocidio che viene fatto frequentemente non solo da “leggeri” esponenti del mondo dello spettacolo, ma anche da personalità pubbliche di ben altro peso che continuano a flirtare con una sinistra violenta che, come stiamo vedendo da alcuni giorni in molte città italiane, organizza cortei di protesta nella convinzione che nella Striscia di Gaza sia in atto un vero e proprio genocidio nei confronti del popolo palestinese.

Vale la pena, al fine di contrastare “l’ignoranza dei fatti”, ma soprattutto le falsità demagogiche, difare chiarezza su due concetti fondamentali ovvero genocidio e crimini di guerra o contro l’umanità. La parola genocidio fu introdotta dal giurista polacco Raphael Lemkin, già studioso dello sterminio degli Armeni consumato dall’Impero Ottomano nel 1915-16, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale con l’obiettivo di dare una giusta collocazione linguistica al sistematico progetto nazista teso all’eliminazione definitiva dell’intero popolo ebraico.

LA DEFINIZIONE
Per genocidio deve intendersi, secondo il giurista polacco, «la deliberata distruzione parziale o completa di un gruppo etnico, razziale, religioso o nazionale». Il concetto diventa parte integrante dell’accordo di Londra siglato l’8 agosto 1945 tra Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Urss, mentre viene riconosciuto il 9 dicembre 1948 dall’Assemblea generale dell’Onu.

Nei decenni successivi, precisamente il 7 luglio 1998, attraverso la formulazione dell’articolo 6 entra a far parte dello Statuto della Corte penale internazionale. I crimini di guerra o contro l’umanità, viceversa, come del resto si evince dalle Convenzioni di Ginevra, si configurano ogniqualvolta i civili perdonola vita non come conseguenza secondaria di azioni militari, ma quando diventano «bersagli in quanto tale».

Per avere contezza su ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza non si dovrebbero mai perdere di vista le differenze esistenti fra queste due fattispecie storico-giuridiche. In tal senso, le feroci violenze commesse dai militanti di Hamas lo scorso 7 ottobre nei confronti di uomini, donne e bambini sono da considerare, nonostante una certa sinistra continui a negarlo, veri e propri crimini contro l’umanità. I terroristi di Hamas (come è stato documentato dal New York Times) hanno agito nei kibbutz e nel mezzo di un raduno di giovani sapendo di trovare civili inermi da brutalizzare e uccidere a migliaia.

RAGIONI IDEOLOGICHE
È corretto, altresì, chiedersi se la risposta di Israele all’aggressione subita sia stata sproporzionata, infrangendo le norme del diritto internazionale, ma ciò che non bisogna mai dimenticare è che le azioni militari israeliane hanno sì colpito la popolazione civile, ma mai «come bersaglio in quanto tale». La cosa da escludere sia in punta di diritto che di fatto è che si tratti di genocidio secondo l’accezione formulata da Raphael Lemkin e da tempo universalmente accettata.

Sicché occorre essere chiari: chi va in piazza accusando lo Stato di Israele di genocidio lo fa solo per ragioni ideologiche e non sposta di un ette il complicato cammino verso la pace. Ma soprattutto rende un cattivo servizio agli stessi palestinesi di Gaza, di fatto, prigionieri di Hamas.

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