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Medio Oriente, quanto pesa il fattore paura sulle crisi nella regione

Giovanni Longoni
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La paura è un fattore fondamentale all’opera nella crisi mediorientale. C'è quella di Israele che si è scoperto debole e ha ricevuto la visita di spettri che si augurava appartenessero ormai al passato. C’è quella del regime iraniano e dei gruppi armati che Teheran sostiene, primo fra tutti Hamas; questo è il vero e proprio terrore di venire spazzati via dagli accordi fra lo Stato ebraico e i Paesi arabi sunniti, egemoni nella regione. E poi esiste un altro genere di timore ed è quanto spiega il modo di agire di quelle stesse leadership arabe sunnite. Il presidente turco Erdogan sabato ha dichiarato: i Paesi islamici hanno abbandonato i palestinesi. Vero: Egitto e Giordania in particolare agiscono da mesi spinti dalla paura di venire invasi da migliaia di profughi. Non vogliono accogliere i fratelli palestinesi dei quali temono attivismo politico e idee sediziose. Per Amman c’è il precedente dell’Autunno Nero 1970, per il Cairo conta la difficile gestione della controrivoluzione con cui è stato soffocato il governo di Morsi e dei Fratelli Musulmani. Stesso discorso per chi comanda gli Emirati Uniti o l’Arabia Saudita, Stati interessati ad avere buoni rapporti con Israele ma che non si permettono di dirlo apertamente, almeno non in questo frangente, perché l’opinione di gran lunga prevalente tra i loro sudditi è del tutto contraria alla esistenza di uno Stato ebraico lì dove è: edificato su quelli che l’islam considera suoi luoghi santi.
Ma è davvero tutto qua il problema?

Cioè: fino a che punto si può credere che monarchi assoluti e rais senza scrupoli che hanno il monopolio della violenza, circondati da apparati di sicurezza e repressione efficienti e spietati, se la facciano sotto al pensiero di una rivolta popolare fomentata da predicatori estremisti? In fin dei conti, Abdel al Sisi e Bashar al Assad sono riusciti ad avere la meglio sulle rivoluzioni islamiche uscendo vittoriosi da situazioni che sembravano definitivamente compromesse.

No, non basta questa spiegazione. La paura è molto più profonda poiché dipende da un elemento su cui detti attori internazionali non hanno alcuna possibilità di controllo. Il fatto è che un uomo del potere e della scaltrezza di Mohammed Bin Salman è quasi disarmato di fronte alle reazioni dell’Occidente alle sue politiche. Gli appuntiamo sul petto tante medaglie per i progressi della condizione femminile in Arabia Saudita e arriviamo ad ammettere che solo un illuminato sovrano assoluto (o suo figlio) può realizzare quei passi avanti ma poi, quando quello stesso principe machiavellico mostra i suoi aspetti feroci, non esitiamo a condannarlo senza appello.

Per noi è normale. La chiamiamo democrazia. Ma dal punto di vista non occidentale i mutamenti delle politiche da un governo americano all’altro, oppure l'alternarsi di opportunismo e idealismo tipico dell’Unione Europea, sono cose spiazzanti. Inconcepibili. Re e rais non temono le Primavere Arabe, bensì il fatto che quelle rivoluzioni intrinsecamente reazionarie abbiano avuto l’approvazione di Barack Obama, Hillary Clinton, Nicolas Sarkozy, David Cameron. Leader che passavano per i più svegli sulla scena.

È come se il più fedele dei cani da guardia, dopo anni di premi e carezze perché attaccava ladri e malintenzionati, di punto in bianco venisse bastonato dal suo padrone proprio in quanto difende con efficacia la casa. Perdonerà il principe saudita, che supponiamo gattaro sfegatato al pari del Profeta, questo irriverente paragone; ma noi siamo cinofili. La cosa si può vedere anche così: Washington e soprattutto Bruxelles sono sempre pronte a sanzionare i leader brutti & cattivi ma poi, quando si accorgono che così facendo si è data la stura ai nemici dell'Occidente, anche Usa e UE corrono ai ripari rimangiandosi tutto. Abbiamo abbattuto Gheddafi e dato una mano a chi voleva fare altrettanto con Assad ma, una volta provato sulla nostra pelle cosa è in grado di fare l’islam radicale (leggi: Bataclan), noi europei abbiamo cambiato rotta. Senza dare troppo nell'occhio. Per esempio si è lasciata carta bianca a Putin in Siria e si è cercato di mettere una pezza nel disastro libico, sostenendo questo o quel potentato locale.

Non stupisce quindi che, al di fuori di Europa e Nordamerica, le accuse russe e cinesi all’Occidente ipocrita siano così ascoltate. La nostra politica estera agli occhi degli altri popoli appare schizofrenica od opportunistica. Come se ne viene fuori? Le possibilità sono solo tre: o trionfa la democrazia su tutto il pianeta o la stessa viene sconfitta per sempre. Tra la via “necons” e quella “putiniana”, fortunatamente resta uno spazio per l’impervio sentiero del realismo politico che procede fra i massi di interesse nazionale, difesa della nostra identità e confronto con gli interessi altrui. Un percorso che, per quanto migliore degli altri, non garantisce il successo.

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