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Nato, i 75 anni: l'Alleanza che ci ha tenuto al riparo dal comunismo

Marco Patricelli
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I carri armati T-34 sovietici nella seconda metà degli Anni ’40 ci avrebbero messo poche ore a dilagare nella Germania Occidentale, e ancor meno a tracimare da Trieste, ancora sotto controllo alleato, sulla Pianura Padana, per portare il comunismo nel cuore dell’Europa spossata dalla Seconda guerra mondiale col passaggio della leadership mondiale agli Usa, senza più forze per fronteggiare l’Urss che con Stalin aveva inglobato i Paesi dell’Este si apprestava a far esplodere la prima bomba atomica.

E allora il 4 aprile 1949, sotto l’egida statunitense, a Washington nasceva l’Alleanza atlantica che prendeva il nome di Nato, con 12 Paesi che si impegnavano a prestarsi vicendevole appoggio in caso di attacco esterno. Una sola delle dodici nazioni firmatarie apparteneva al novero degli sconfitti nella seconda guerra mondiale, ed era l’Italia repubblicana. La Germania era sotto tutela, perché le ferite inferte dalla Wehrmacht e dalle Waffen-SS sanguinavano ancora nel ricordo e sarebbe stato inaccettabile ricostituire il suo esercito, anche se l’obiettivo nascosto era proprio quello, andando a selezionare gli ufficiali più esperti non compromessi (o meno compromessi) con il nazismo.

 


I CARDINI L’Italia aveva il Partito comunista più forte dell’Europa occidentale e infatti la firma del trattato di Washington venne accolta con proteste e bandiere rosse in piazza. Quel patto era stato sottoscritto dal ministro degli Esteri del Governo di Alcide de Gasperi, Carlo Sforza, diplomatico di primo piano che godeva della stima internazionale, antifascista della prima ora, europeista e filo-occidentale. L’Italia si schierava al fianco di Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Islanda e Norvegia. Era stato proprio Sforza a ottenere l’appoggio decisivo della Francia che schiuse all’Italia la via del ritorno nel concerto diplomatico europeo, con un peso militare simbolico ma con un grande significato morale e di rinascita. Il Vecchio continente era spaccato in due dalla cicatrice della cortina di ferro che separava il mondo libero da quello comunista. 

 


Nell’agosto del 1949 Stalin gonfiava il petto annunciando l’esplosione della prima atomica con tecnologia sovietica, mentre l’Armata Rossa era di gran lunga il più forte e numericamente agguerrito esercito in Europa. L’8 maggio 1955 la Nato si apriva all’ingresso della Repubblica federale tedesca e il 12 novembre passava anche il via libera alla costituzione della Bundeswehr, il nuovo esercito che si integrava nel sistema dell’Alleanza atlantica. L’Urss aveva già risposto il 4 giugno 1955 creando l’anti-Nato, ovvero il Patto di Varsavia che legava i Paesi satellite (Bulgaria, Ungheria, Germania Orientale, Polonia, Romania e Cecoslovacchia) uniformati alla guida ideologica del Cremlino e adesso anche alla sua dottrina militare.

 


I cardini dell’Alleanza stavano e stanno nei più volte richiamati articoli 4 e 5 del trattato. Nel primo di essi si sancisce che «le parti si consulteranno ogni volta che, nell’opinione di una di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata». Esso è stato invocato sette volte: quattro dalla Turchia (2003, 2012 e 2020) e tre da Polonia e Stati Baltici (2014, 2021 e 2022), questi ultimi in riferimento alla politica aggressiva della Russia. Ne deriva il richiamo all’articolo più vincolante, il 5: «Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica».

 

 

I 12 Paesi con nemico unico del 1949 sono cresciuti di numero con l’ingresso di Grecia e Turchia nel 1952 e della Spagna nel 1982, con l’uscita della Francia gollista nel 1966 e il suo rientro nel 2009. Ma la svolta è la caduta del Muro di Berlino del 1989 che sgretola l’Urss e depotenzia la Russia a nemico di secondo piano, e soprattutto nel 1999 per l’allargamento della Nato a richiesta di tre Paesi già ex Patto di Varsavia: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Seguiranno nel 2004 Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, nel 2009 Albania e Croazia, nel 2017 Montenegro, nel 2020 Macedonia del Nord e nel 2023 Finlandia e Svezia.Per tutti loro, per quanto in maniera graduata, ha influito il timore di un revanscismo russo. La questione, quindi, non è affatto se l’Alleanza atlantica è andata ad abbaiare nel giardino russo, inteso come sua sfera di influenza diretta o indiretta, ma piuttosto che i Paesi vicini o confinanti, hanno chiesto l’adesione proprio per tutelarsi. Estonia, Lettonia e Lituania, a esempio, sarebbero individualmente indifendibili se non avessero lo scudo militare Nato e la clausola automatica di protezione offerta dall’articolo 5. Il mondo, in questi 75 anni, è cambiato ed è quasi irriconoscibile rispetto al quadro del 1949, ma non è cambiato il principio astratto della sicurezza collettiva attraverso formule militari di deterrenza e di muscolarità declinate all’autodifesa.

 


Tanto per fermarsi alla Russia di Putin, essa è intervenuta nel 2008 in Georgia, nel 2014 ha invaso e annesso la Crimea, nel 2022 ha aggredito l’Ucraina con la finzione dell’operazione militare speciale «per sradicare il nazismo». Il bipolarismo del 1949 è invece trasfigurato nel multipolarismo delle sfide contemporanee, i confitti asimmetrici, la minaccia globale del terrorismo, i conflitti locali dimenticati o dimenticabili e quelli che rappresentano i nodi focali dell’instabilità in Medio Oriente.

 

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