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Gender e maternità surrogata, ora le donne inglesi alzano la voce

Costanza Cavalli
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Si chiama “industria della fertilità”, fa leva sul conflitto femminile tra libertà e procreazione e vende alle donne il miraggio, immaginifico se non alienato, della libertà di procreare quando “ce la si sente”, giocando a dadi con l’orologio biologico. Qualcuno ha descritto Dignitas Infinita, il documento redatto dal Dicastero per la Dottrina della Fede pubblicato ieri, come «ultra conservatore» (il Concilio Vaticano II parlava di una chiesa che fosse capace di distinguere i segni dei tempi, sì, non che si demolissero i fondamentali), ma non dev’essersi accorto che ad alzare la voce su teoria gender, maternità surrogata e fecondazione in vitro sono state, prima di tutti, le inglesi.

Quelle che ebbero un capo di Stato donna nel Settecento (noi di qua con i “giovin signori”, loro là con la Regina Anna), quelle delle Suffragette, quelle con un primo ministro donna cinquant’anni fa, Margaret Thatcher, dell’aborto gratuito e delle 52 settimane di congedo di maternità, quelle che se parli di genere «assegnato alla nascita» è meglio che cominci a correre. Sono anche quelle che hanno aperto il dibattito sui pericoli e le false speranze del congelamento degli ovuli; e sulle conseguenze sociali e psicologiche generate alla “rivoluzione” della crioconservazione. Nel Paese in cui il numero di pazienti che congelano i loro ovuli ogni anno è più che decuplicato tra il 2011 e il 2021, passando da 373 a 4.215, sono quattro i fronti del problema.

 

 

 

Primo, quello sanitario e personale delle donne che decidono di intraprendere questo percorso. L’ha raccontato in prima persona India Ross, 34 anni, vicedirettrice del Financial Times, in un articolo dal titolo «The frozen future», il futuro congelato: un rituale quotidiano invasivo e estenuante a base di ormoni, fiale, siringhe, che «fa sempre venire in mente Trainspotting o Breaking Bad», scrive, un toboga emotivo di aspettative, tentativi, fallimenti. Per una tecnica che, riferisce l’Hfea (la Human Fertilisation and Embryology Authority, l’ente regolatore della fecondazione in vitro nel Regno Unito) ha un tasso di natalità intorno al 18%. E questo è il secondo punto: Catherine Hill, dell’ente Fertility Network UK, avvisa che «le cliniche non dovrebbero infondere false speranze sulle possibilità o sulla probabilità di successo se congeli gli ovuli». I critici sostengono infatti che l’industria sfrutti le lacune informative dei consumatori e comunichi dati incompleti o fuorvianti sulle probabilità di successo del procedimento: la crioconservazione viene venduta come «una polizza assicurativa sulla fertilità», aumentando le speranze «oltre ogni ragionevolezza».

Terzo punto: il costo rende la pratica ancora proibitiva. Da qui, l’idea delle aziende, specialmente americane e quelle tecnologiche e di servizi finanziari, di inserire il congelamento degli ovuli e la fecondazione in vitro nelle prestazioni di assicurazione sanitaria privata. Secondo la società di consulenza Mercer, il numero di grandi aziende statunitensi che offrono copertura per il congelamento di ovuli è cresciuto dal 16% nel 2022 al 19% l’anno scorso (Apple, Google e Facebook lo fanno da un decennio). «Sempre più dipendenti chiedono di poter accedere a questo benefit», ha spiegato Rachel Western, responsabile della salute del gruppo assicurativo Aon, «soprattutto perché vedono sempre più articoli che parlano di fertilità e congelamento degli ovuli».

 

 

 

Oltre agli interrogativi sull’etica di incentivare le lavoratrici a prolungare la loro vita lavorativa senza avere figli, arriviamo all’ultimo punto: la pubblicità. Le influencer sono diventate un medium anche per le cliniche private: è successo con Sophie Hermann, mezzo milione di follower su Instagram, 37 anni, che ha condiviso sui social i dettagli della trafila. «La migliore decisione della mia vita», ha dichiarato. TikTok e Instagram sono terra di conquista anche per l’industria della fertilità: le donne vengono “bombardate” di contenuti sul congelamento degli ovuli; al punto che, secondo un sondaggio riportato dal Times, la metà delle ragazze tra i 16 e i 24 anni si dice ormai preoccupata per la gestione futura della propria fertilità. Una capitalizzazione della paranoia, ancora una volta laccata di rosa. 

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