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L'orango Rakus si cura da solo con le erbe: il primo caso documentato

Claudia Osmetti
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Un po’ istinto, un po’ conoscenza, un po’ imitazione e un po’ che il mondo animale, alla fine, basta osservarlo: racchiude tutto, persino la medicina. Indonesia. Quella foresta pluviale sterminata, una macchia di verde senza fine. Rakus è un giovane orango di Sumatra (appartiene alla famiglia dei pongo abelii) che non s’è mai realmente integrato coi gruppi del posto. Viene da fuori, lui. È “straniero”. E forse è proprio per questo che un giorno s’azzuffa con un altro esemplare di scimmia e ha la peggio. Il motivo del diverbio, vai a saperlo. Ma neanche ci importa. Ci importa, semmai, che ne esce distrutto, il povero Rakus, da quel diverbio: ha l’occhio destro pesto, lacerato, ha una ferita profonda che gli fa affiorare la pelle cruda. Deve fare un male assassino.

L’UNGUENTO DI LIANE

Ed è proprio a questo punto, però, che Rakus fa quello che non ti aspetti. È metà giugno del 2022 (la sua storia finirà, qualche anno dopo, cioè adesso che è maggio 2024, sulla rivista Scentific reports e, nell’arco di qualche ora, farà addirittura il giro del mondo, non solo quello etologico) e questo orango dal pelo arancione e lo sguardo placido inizia a strappare alcune foglie da una liana. Non le prende a caso, va esattamente su quelle che gli interessano. Le sceglie una per una con la dovizia di un farmacista che fruga sugli scaffali dietro al bancone. Solo che qui gli scaffali non ci sono e il bancone è un fazzoletto di foresta incontaminata. Le foglie che interessano a Rakis sono ovali, appartengono a una pianta sempreverde che si chiama, in termini tecnici, fibraurea tinctoria e in termini correnti akar kuning, che conoscono benissimo anche gli indonesiani. Gli indonesiani umani che abitano in quelle zone.

È un disinfettante naturale, la fibraurea. Assolve anche le proprietà di un antidolorifico e di un antipiretico. Insomma, è un’erba officinale. Di quelle che chiameremmo mediche. Di quelle impiegate nelle cure tradizionali che riguardano l’uomo. Rakus mica è uno sprovveduto. Cerca quelle foglie, le mastica, le rimastica, le sputa e si porta un dito dalla bocca alla ferita. Ci mette su quel composto appiccicoso a mo’ di impacco. Una, due, tre, chissà quante volte. Di certo per (almeno) cinque giorni di fila. Gli danno fastidio pure le mosche che sono richiamate dall’odore pungente della sua ferita, ma lui niente, imperterrito. Prosegue. È il medico (meticoloso) di se stesso. È il suo (preziosissimo) infermiere. Non solo. Non si limita all’“unguento” di liana, questo orango che non ha studiato Medicina ma quasi. Continua a ruminare anche il gambo dell’akar kuning mentre applica le sue foglie per sette minuti alla volta. Preciso. Rigoroso. Che manco le ricette del dottore di famiglia.

 

 

 

LA GUARIGIONE

Cinque giorni dopo quello squarcio sotto all’occhio di Rakus si richiude. Un mezzo miracolo o forse no, era così che doveva andare. Un mese dopo è appena visibile. È la prima volta, dice Isabelle Laumer, che fa la biologa e lavora per un’istituto tedesco che studia il comportamento animale, il Max Planck di Costanza, «che vediamo un animale selvatico applicarsi una medicina potente direttamente su una ferita». Laumer parla in prima persona perchè, assieme ai colleghi dell’università nazionale dell’Indonesia, è proprio lei che segue, osserva e annota tutte le azioni di Rakus nel parco nazionale di Gunung Leuser.

Non sappiamo altro di Rakus. Non sappiamo se quella “pomata naturale”, che può naturale di come se l’è procurata lui non si può, l’abbia scoperta per caso (cosa assai improbabile vista l’organizzazione di ogni suo gesto) o se gliel’abbia insegnato qualcuno (cosa assai più probabile secondo gli esperti) o se l’abbia visto fare in qualche occasione e abbia semplicemente pensato di imitarlo. Sappiamo però che la sua terapia a base di foglie funziona, che dall’infezione è guarito completamente, che il suo comportamento «sembrava essere intenzionale».

 

 

 

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