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I nuovi sessantottini, da Dylan a Maometto: la canzone della sottomissione

Tommaso Lorenzini
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Inginocchiati in massa sul prato dell’università, le ragazze rigorosamente divise dagli uomini, a distanza e tenute alle loro spalle, il capo coperto dalle kefiah di ordinanza. Non si tratta di qualche moschea mediorientale, la scena arriva dalla civilissima California, dalla Ucla, l’Università di Los Angeles, distante neanche 400 miglia da quella Berkeley che negli Anni Sessanta fu l’epicentro del terremoto studentesco ma che oggiappare così lontana nel tempo e nello spazio. E nella sostanza dei protagonisti: allora erano convinti che il mondo si doveva e poteva cambiare in nome dell’uguaglianza di tutti, oggi sono convinti di non si sa cosa, se non della loro stessa confusione e dell’odio per il nemico ebraico (e non solo).

Fa amaramente sorridere constatare che, sul quel prato, accanto ai giovani di fede islamica che stanno occupando e picconando le radici dell’America odierna partendo proprio dagli atenei, culle della democrazia a stelle e strisce (con la complicità di tanti docenti e istituzioni liberal), si siano sistemati studenti intrisi di cultura progressista, sedicenti anti-colonialisti, orgogliosamente atei e paladini del gender fluid e delle totali libertà e identità sessuali: capelli colorati, costumi facili, idea di famiglia liquida. Si sono uniti alla preghiera dei compagni di protesta anti-ebraica e anti-Israele ignorando che tutte le conquiste da loro propugnate sarebbero velocemente cassate e represse in una qualsiasi scuola islamica, in un qualsiasi istituto e società regolati da princìpi musulmani.

 

 

 

E fa ancora più ridere che proprio un paio di giorni fa qualcuno abbia esclamato che «agli studenti dei campus americani pronti a farsi arrestare per la causa di Gaza manca un Bob Dylan». L’ha detto Joan Baez, nome grossissimo della mitologia pacifista, oltre 60 annidi musica e militanza in nome di tutti i diritti, per le donne e per la pace, leggendaria regina del folk e della canzone di protesta. Lei che della sua relazione fallita con Steve Jobs ha dichiarato: «Non ha funzionato perché voleva una moglie che lo accudisse, qualcuno che cucinasse per lui». Vi ricorda qualcosa?

Quando la Baez cantava “Farewell Angelina” e i suoi fan occupavano i college contro la guerra del Vietnam, avevano un «collante», la forza «unificante» della musica e di canzoni-manifesto come “Blowin’ in The Wind” di Bob Dylan: «È una delle ragioni per cui oggi siamo divisi quando invece dovremmo trovarci assieme. I movimenti non hanno un vero inno come avevamo allora», ha detto la Baez.

Quegli Anni Sessanta furono un decennio «nel quale ci fu un’esplosione di talenti», la musica divenne armadi contestazione politica, mentre «oggi non c’è più nessuno in grado di scrivere un “Blowin’ in the Wind”, o un “Imagine”». Da Bob Dylan a Maometto, la montagna si è davvero spostata altrove. Nei fatti, si è spostata nel cuore dell’Occidente, che pensando di aprire alla cultura islamica ha aperto di fatto all’integralismo islamico: difficile tenerli separati, difficile non intravedere nella grande preghiera di massa un segnale che va oltre, una dichiarazione d’intenti di quanti in nome dello stop ai combattimenti a Gaza spostano sempre un pezzettino più avanti la linea della loro influenza.

Quella che sembra una preghiera, assomiglia anche a una prova di forza, a un gesto di sottomissione. La nostra, quella di chi non la pensa come loro. E, stavolta non fa ridere, tutt’altro, l’America woke sedicente tollerante e libertaria dovrebbe riflettere sull’evoluzione delle proteste che intende appoggiare. In quei prati dove oggi si recita «Allahu akbar», sessant’anni fa riecheggiava forte il sogno di Martin Luther King, quello secondo cui «tutti gli uomini sono creati uguali», quello che incitava: «Acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio inno: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”». Alla Ucla, e nella altre università dove si grida “From the river to the see” e “Israele genocida”, sarebbero d’accordo?

 

 

 

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