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Medioriente, Hamas boicotta le trattative, però i propal danno la colpa agli ebrei

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Giovanni Sallusti
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Come in ogni autentica tragedia, il nucleo è abbastanza semplice. Sta tutto in una domanda, che nessuno vuole pronunciare, perché smascherebbe d’un colpo il teatrino quotidiano allestito in Occidente sul macello mediorientale. Questa domanda consiste, fondamentalmente, in una serie di atti mancati.

Perché il pacifista intransigente non sbandiera in piazza contro Hamas, perché l’editorialista collettivo non scrive contro Hamas, perché intellò e commentatori avvezzi a lavarsi la coscienza facendo oscena retorica sui bambini palestinesi non inveiscono contro Hamas, perché gli analisti col sopracciò intenti a spaccare il capello in diciotto su come una democrazia sopravvive circondata da nemici mortali non stigmatizzano Hamas, perché i “basta bombe” generici e gli arcobaleno purchessia non sfilano contro Hamas?

 

 

 

Eppure, ancora una volta la cronaca di questi giorni (per quanto le categorie menzionate sopra tendano a prescinderne, essa si prende da sola i suoi diritti) ci dice chiaramente che l’unico, vero, tetragono ostacolo a un accordo di tregua (che è l’unico abbozzo di “pace” possibile nell’inferno di Gaza, almeno finché una parte avrà come missione finale la sparizione dalla carta geografica dell’altra, quella ebraica) si chiama Hamas. Non solo per una ragione allo stesso tempo metafisica e statutaria, appunto l’instaurazione della sharia “dal fiume al mare”.

Ma anche per un’evidenza empirica che si è replicata ciclicamente nelle ultime settimane, ogni volta bellamente ignorata dagli opinionisti engagé: a far saltare il banco fragilissimo delle trattative è invariabilmente la banda islamista. Il recente il no ufficiale (l’ennesimo) alla proposta di cessate il fuoco emersa dai negoziati di Doha, con un classico della casa: “Israele ha cambiato le condizioni”.

Un colpo di mano di cui non si sarebbero accorti nemmeno i mediatori egiziani e qatarioti, non esattamente insensibili alla causa di Hamas. La verità è che assistiamo all’eterno ritorno di uno schema che è allo stesso tempo militare e comunicativo, sempre più efficace per l’ignavia (o la complicità?) della bolla mediatica occidentale. Hamas fa buttare in pasto alle agenzie da qualche seconda fila la parolina magica “tregua”, di cui contempla una definizione provocatoria: mantenimento integrale dell’arsenale bellico e delle infrastrutture, tunnel in primis, in grado di riportare a Gaza tutti i terroristi sopravvissuti, ritiro immediato e totale dell’esercito israeliano.

Agli occhi di qualunque osservatore passabilmente onesto (astenersi giornaloni) non è un accordo e nemmeno la base di una trattativa, è sic et simpliciter il ripristino delle condizioni per un altro 7 ottobre, un altro pogrom in nome di Allah. Israele, con perentorietà lievemente comprensibile, la perentorietà dei lutti e del sangue, ha un’idea diversa (“non ci ritireremo dal corridoio di Filadelfia e da quello di Netazrim”, ha ribadito ieri Netanyahu, riferendosi a due arterie tra Gaza e l’Egitto giudicate il minimo sindacale per garantire la sicurezza ai propri cittadini), Sinwar e i suoi scherani possono urlare al complotto sionista e protrarre la notte mediorientale un po’ più in là. $ la notte in cui vengono purtroppo massacrati anche civili palestinesi? Meglio perché, come da messaggio che lo stesso Sinwar fece recapitare alla leadership di Hamas impegnata a Doha nel giugno scorso, “questi sacrifici sono necessari!”.

Pratica sistematica degli scudi umani, disponibilità simulata al dialogo, sabotaggio di qualunque bozza di cessate il fuoco per continuare la guerra santa all’ebreo: è un circolo vizioso che va in scena da mesi sotto i nostri occhi, ma le anime belle distolgono puntualmente lo sguardo, preferiscono trangugiare all’aperitivo radicalchic i comunicati stampa dell’Ufficio Politico del gruppo (che sarebbe equivalso a dare credito nel 1944 ai bollettini delle Ss).

Eppure, il Segretario di Stato americano Anthony Blinken l’ha detto chiaramente: «Israele ha accettato il piano, ora tocca ad Hamas». Il presidente Biden, se possibile, è stato perfino più chiaro: «Hamas si sta tirando indietro». Sono i massimi rappresentanti di quella stessa amministrazione democratica che, per il mainstream al di qua dell’Atlantico, è l’intoccabile baluardo di civiltà contro il trumpismo montante. Sono i loro stessi idoli: sempre, tranne quando c’è in ballo Gaza. Lì, si fidano di più della versione di uno come Sinwar, battezzato «il macellaio di Khan Younis» dalla sua stessa gente, uno che vorrebbe «espandere il conflitto oltre Gaza», anche appiccando il Terrore in Cisgiordania, secondo quanto riferiscono alcuni mediatori arabi che stanno lavorando ai colloqui di Doha citati ieri dal Wall Street Journal.

Non vogliono credere a un giornale conservatore? Credano almeno al tritolo, quello del fallito attentato a Tel Aviv rivendicato dalla Jihad Islamica e dagli stessi gentiluomini di Hamas. “Gli attacchi kamikaze in Israele continueranno”, ha avvisato il club nazi -islamico, rievocando espressamente la Seconda Intifada. Ma vogliono la pace, è evidente. 

 

 

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