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Iran, quella rivoluzione che abbagliò la sinistra

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Gli iraniani fanno festa per il ritorno dei diplomatici espulsi dalla Gran Bretagna dopo l'assalto dell'ambasciata a Teheran

Corrado Ocone
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 L’ayatollah Khomeini, il fondatore della repubblica islamica che da quasi mezzo secolo opprime la popolazione iraniana, trascorse gli ultimi mesi di esilio in un piccolo comune della cerchia metropolitana di Parigi. Vi era arrivato il 6 ottobre 1978, dopo che le autorità irachene non avevano ritenuto opportuno continuare ad ospitarlo nella città sacra agli sciiti di Najaf, ove aveva trascorso la più parte del suo confino, iniziato nel 1963 in Turchia. Esse temevano che l’incendio potesse divampare anche nel loro paese, ove la maggioranza era sciita. Le manifestazioni di protesta in piazza contro la monarchia crescevano infatti in Iran ogni giorno di più e le forze di polizia dello scià Reza Pahlevi non esitavano a sparare sui manifestanti per reprimerle (l’8 settembre, nel cosiddetto “venerdì nero”, si erano contate ottantasei vittime). La scelta di Parigi da parte di Khomeini non fu certo casuale: nei mesi precedenti si era saldata infatti un’alleanza stretta, in nome del comune antioccidentalismo, fra il clero sciita e la sinistra intellettuale sia francese sia iraniana (spesso in esilio proprio nella capitale francese). Fra gli intellò della rive gauche, in men che non si dica, con uno schema collaudato, era avvenuta la “santificazione” del vecchio ayatollah che, pur non nascondendo né le idee che aveva né l’intenzione di imporre la sharia qualora fosse andato al potere, veniva visto come colui che avrebbe dato spiritualità alla politica e riscattato dalle nefandezze del colonialismo il popolo iraniano.

PELLEGRINAGGI DALL’AYATOLLAH
La sua casa parigina, e già prima quella irachena, erano diventate meta di veri e propri pellegrinaggi da parte di giornalisti, maitre-à-penser più o meno presunti, rivoluzionari in cerca di ispirazione e alla ricerca di nuove vie per sconfiggere l’odiato sistema capitalistico. Il consolidato sistema della mistificazione e della propaganda operante a sinistra dette l’ordine di scuderia, a cui tutti si adeguarono: Khomeini è uno dei nostri perché ha i nostri stessi obiettivi! Fu proprio nel periodo in cui l’ayatollah era a Parigi che anche Michel Foucault si recò a Teheran. Egli era allora il filosofo francese più influente, rappresentante del cosiddetto post-strutturalismo che aveva sostituito il potere intellettuale fino allora detenuto da Sartre. Foucault era anche una delle firme di punta del Corriere della sera. E fu proprio il quotidiano di via Solferino a commissionargli un reportage che aiutasse a capire quanto stesse effettivamente avvenendo sulle piazze iraniane.

 



IL FALLIMENTO DI FOUCAULT
Foucault fallì clamorosamente. Immerso completamente nei fumi dell’ideologia, letteralmente innamorato dei rivoluzionari khomeneisti, egli vide non la realtà ma la raffigurazione che di essa si era fatto in mente. L’entusiasmo gli prese la mano. Il suo giudizio positivo si sarebbe mostrato talmente granitico da sopravvivere anche al bagno di realtà che il ritorno di Khomeini a Teheran e la presa del potere (il primo febbraio 1979) avrebbe dovuto imporre a ogni persona di buon senso.

In pochi giorni furono infatti proclamate quasi tutte le leggi repressive e liberticide che reggono ancora oggi il regime. Per le opposizioni, il libero pensiero, la libertà delle donne e degli omosessuali, in Iran non c’era ormai più spazio. E invece Foucault, nella rivoluzione iraniana, continuava a vedere il tentativo di “ introdurre una dimensione spirituale nella vita politica”. I khomeinisti, con il loro esempio, ci facevano capire, a suo dire, che il capitalismo non è il destino finale dell’umanità e che la modernizzazione non coicide affatto con il sistema liberal-democratico. Egli si spinse fino a vedere nella rivoluzione degli ayatollah «la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più moderna della rivolta». Le sue parole esprimevano i sentimenti e il clima che si respirava in tutto il mondo intellettuale parigino. Era il ripetersi di un cliché ormai consolidato che ha fatto trovare la sinistra intellettuale novecentesca sempre dalla parte sbagliata. Fu allora a tutti chiaro che anche in un teorico postmoderno poteva annidarsi il più pervicace dei miti moderni: l’idea di una rivoluzione catartica e redentrice che possa definitivamente affrancare il mondo dal veleno capitalistico che l’Occidente vi ha immesso.

Altrettanto prevedibile è la rimozione che si è compiuta, con il passare degli anni, di queste débacle. Oppure l’assoluzione morale che è stata tentata di chi ne è stato protagonista, in quanto, si dice, non poteva sapere cosa sarebbe accaduto in futuro. In sostanza, a sinistra non si è disposti a fare autocrica sul proprio passato per continuare ad errare nel presente. Nel caso di Khomeini e dei suoi seguaci era, invece, già tutto chiaro sin dall’inizio. E chi voleva capire aveva la possibilità di farlo. Oriana Fallaci, ad esempio, concluse la sua intervista a Khomeini, per il Corriere del 26 settembre 1979, togliendosi in segno di sfida il chador che, in quanto donna, l’ayatollah le avea imposto per il loro colloquio.

 

 

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