Sguardi, corna, cappelli: la storia del mondo passa dalle immagini della situation room

Trump concentrato, i capi militari, i collaboratori: gli scatti diffusi dalla Casa Bianca dipingono il dietro le quinte del blitz sull’Iran E riportano alle azioni ordinate dagli ex presidenti: da Johnson per il Vietnam a Obama che assiste all’eliminazione di Bin Laden
di Dario Mazzocchilunedì 23 giugno 2025
Sguardi, corna, cappelli: la storia del mondo passa dalle immagini della situation room
4' di lettura

T ra le immagini che segneranno la storia in corso di scrittura- tutta da approfondire, analizzare e sezionare - da ieri ci sono quelle del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, seduto nella Situation Room mentre è in corso l’attacco agli impianti nucleari iraniani. Cappellino da baseball rosso con lo slogan MAGA in bella vista, sui lati i numeri 45 e 47, a marcare i suoi due mandati presidenziali: la sobrietà del gennaio 2020, durante il briefing per l’uccisione del generale Qasem Soleimani, stavolta è riposta nell’armadio. In alcuni scatti il suo sguardo è rivolto agli schermi che ha davanti alla sua postazione, l’espressione impassibile da Commander in Chief che ha fatto qualcosa che i suoi predecessori hanno solo ipotizzato e mai davvero realizzato: bombardare i centri di arricchimento dell’uranio del regime di Teheran.

Attorno a lui la macchina è in moto: il capo dello staff della Casa Bianca, Susie Wiles, che confabula con il capo di Stato maggiore Dan Caine, immortalato mentre spiega nei dettagli cosa sta accadendo e riproduce il gesto scaramantico delle corna, “The Devil’s horns”, a sottolineare l’importanza del momento calcolato nei minimi dettagli e al contempo legato alla buona sorte. La tensione che si respira traspare dalle espressioni del vicepresidente J. D. Vance, del segretario di Stato Marco Rubio e di quello alla Difesa, Pete Hegseth- solo due mesi fa sembrava prossimo alla revoca della sua carica, dopo il pasticcio dei messaggi sullo Yemen e i partner europei scambiati in una qualsiasi chat in cui era stato inserito per sbaglio pure il giornalista Jeffrey Goldberg. Niente superficialità a questo giro. Completano la scena il capo della Cia, John Ratcliffe, con le mani giunte davanti alla bocca e gli occhi sui monitor, il vicecapo dello staff, Dan Scavino, e David Warrington, consigliere legale della Casa Bianca.

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Gli addetti ai lavori, quelli che la conoscono quotidianamente perché è lì che lavorano, la chiamano «whizzer», il suono che salta fuori dalla pronuncia dell’acronimo WHSR: White House Situation Room. È lei l’altra grande protagonista della notte tra sabato e domenica e d’altronde è abituata ad esserlo, tra realtà e finzione. È uno degli spazi più suggestivi di tutta la Casa Bianca, assieme allo Studio Ovale, alla stanza degli ospiti intitolata ad Abraham Lincoln e alla Blue Room degli incontri diplomatici. Compare nelle serie “House of Cards” e “24” e nelle pellicole d’azione come “Air Force One”, “Attacco al potere”, “Al vertice della tensione” e “Thirteen Days”, che merita una menzione d’onore perché racconta i giorni della crisi dei missili a Cuba nell’ottobre del 1962 sotto la presidenza di John F. Kennedy: fu proprio lui a volere una stanza delle emergenze, l’anno precedente, che permettesse di coordinare con efficienza gli interventi militari americani dopo il fallimento dell’invasione alla Baia dei Porci sull’isola governata da Fidel Castro.

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Il termine stanza, oggi, dopo i diversi interventi a cui è stata sottoposta nel corso dei decenni, è riduttivo. È un’area operativa che misura all’incirca 460 metri quadri, con tre sale conferenze blindate, e gestita da una squadra di 130 componenti del consiglio di Sicurezza nazionale che ogni giorno produce documenti, report e informative messe a disposizione dei vertici nazionali. Un processo di lavoro incessante che può fare affidamento su strumenti di comunicazione avanzati, attivo tutto il giorno, tutti i giorni. Eppure pare che quando Ronald Reagan ci mise piede la prima volta si trovò spiazzato, perché aveva in mente qualcosa di molto più grande e molto simile al bunker della pellicola di Stanley Kubrick “Il dottor Stranamore”.

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Assiduo frequentatore della Situation Room è stato Lyndon Johnson, il successore di JFK. Era il periodo della guerra in Vietnam, un dramma che la cultura statunitense ha assorbito a fatica e fatto di emergenze continue. Mappe, foto e grafici sulle pareti e sul tavolo centrale consegnate in bianco e nero agli annali, quando la potenza della comunicazione era ancora ridotta rispetto alla mole di fuoco che sa trasmettere oggi: atteggiamenti molto più compassati rispetto alle foto rese pubbliche dopo il l’1 maggio 2011, quando una squadra d’assalto uccise il capo di Al Qaida, Osama Bin Laden sotto la supervisione di Barack Obama, del suo vice Joe Biden e di Hillary Clinton, che ricopriva la carica di segretaria di Stato. Lo scatto - segno dei tempi - si trasformò subito in meme: dai protagonisti camuffati da supereroi alla rivisitazione che vede l’ufficiale dell’Aeronautica Marshall Webb davanti al computer per una partita di videogame e gli altri che assistono concentratissimi. È lecito aspettarsene di nuovi con Trump protagonista.

L’esecuzione di Bin Laden chiude il cerchio degli attentati dell’11 settembre 2001. Di quella data la Situation Room conserva i ricordi del primo briefing con il vicepresidente Dick Cheney in contatto con il presidente George W. Bush, in volo sull’Air Force One per rientrare a Washington dalla Florida dove era in visita. E dell’incessante susseguirsi di incontri a cui alla fine prese parte lo stesso Bush, dopo essersi rivolto ai cittadini sconvolti: «Oggi il nostro stile di vita è finito sotto attacco. I terroristi possono scuotere le fondamenta dei nostri più grandi palazzi, ma non possono colpire le fondamenta dell’America». Pagine di storia, che la Situation Room custodisce con gelosia e orgoglio.

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