Javièr Milei ha superato ogni aspettativa, ottenendo più del previsto. A riconoscerlo non è un fanatico conservatore o un intransigente libertarian, ma niente meno che il Financial Times, il quotidiano dell’establishment finanziario globale, da molti considerato ancora oggi la “Bibbia” del capitalismo democratico. In un editoriale non firmato uscito ieri, il foglio londinese ha espresso un giudizio sostanzialmente positivo sulla “terapia shock” che il presidente argentino ha imposto al suo paese da quando ha iniziato, il 10 dicembre di due anni fa, il suo mandato. Una terapia che nel giro di poco più di un anno ha portato il paese, che era sull’orlo della bancarotta, ad un sensibile miglioramento delle sue condizioni generali.
Oggi l’Argentina è sicuramente ancora uno stato debole, ma per la prima volta da decenni può dire di vedere la luce in fondo al tunnel. Il risultato indubbiamente più rilevante, come osserva anche il Financial Times, lo si è avuto è sul terreno della lotta all’inflazione, che, nel giro di anno, è scesa da una media mensile del 13% al 3,2%. Non c’è da meravigliarsi se, contestualmente, sia sensibilmente diminuito anche il numero degli indigenti. L’inflazione, come è noto, è proprio una tassa sulla povertà, per dirla come Luigi Einaudi: l’aumento dei prezzi al consumo colpisce in proporzione sensibilmente più forte le fasce più deboli della popolazione.
Il fulcro della politica di Milei è stato la riduzione della spesa pubblica, con tagli che sono arrivati quasi al 30%, con un incidenza sul PIL di quasi 5 punti. È la famosa “motosega” su cui il Presidente argentino aveva impostato la sua campagna elettorale e che era risultata vincente nonostante, in sostanza, promettesse “lacrime e sangue” agli argentini. Ai suoi connazionali, egli ha detto la verità: l’assistenzialismo è come una droga, ti dà un beneficio momentaneo ma ti rovina la vita. Gli argentini gli hanno creduto, poco importa se per convinzione o per disperazione. Ed ora, prima del previsto, vedono i risultati. Nonostante egli non abbia minimamente edulcorato la realtà ed abbia chiesto sacrifici, i media mainstream gli hanno affibbiato l’etichetta di populista. Non capendo, fra l’altro, le modalità comunicative semplici e dirette da lui usate. Dopo aver ammesso questi successi, il Financial Times osserva che per stabilizzarsi e avere successo in via definitiva «l’economista libertarian deve abbandonare i suoi abiti più dottrinari, ascoltare le critiche costruttive e conquistare il centro politico in modo da creare un consenso duraturo sulle politiche di cambiamento».
Probabilmente, Milei quel consenso lo ha già conquistato e non dovrebbe avere troppi problemi nelle prossime tornate elettorali. La questione va probabilmente posta in un altro modo: le politiche liberiste, anche le più radicali, sono in assoluto la panacea di ogni male, o no? Che rapporto c’è fra il liberismo economico e il liberalismo politico? Senza scadere in una disputa teorica che ci porterebbe lontano e che ha tenuto impegnati fior di pensatori in passato, si può dire, pragmatisticamente, che ci sono dei momenti e delle situazioni in cui la deregulation liberista è opportuna e necessaria indipendentemente dal valore che in linea teorica le si attribuisce. Nelle circostanze date, il liberismo era per l’Argentina l’unica via per una possibile salvezza. Così come lo sarebbe per l’Europa dell’iper-regolamentazione di questi anni. Quanto poi ai rapporti fra liberismo e liberalismo, Milei è sicuramente un liberale a tutto tondo. La sua critica al conformismo woke lo dimostra ampiamente.