Con Trump pure i jeans diventano di destra

Storia dell’indumento più americano dal West alla pubblicità con la Sweeney
di Costanza Cavallidomenica 24 agosto 2025
Con Trump pure i jeans diventano di destra

4' di lettura

Una bambolina bionda sexy con gli occhi chiari si infila un paio di jeans da ragazzo. Nessuno spazio lasciato alle curve sotto, e quindi praterie sterminate su cui far correre l’immaginazione, alcuni centimetri di pelle scoperta sopra, il seno è strizzato da un giacchino in denim e l’ombelico si vede ora sì ora no. La campagna pubblicitaria di American Eagle con l’attrice Sydney Sweeney, che secondo la sinistra americana sta riportando in vita il Terzo Reich e le sue aspirazioni eugenetiche, ha fatto se non bingo, almeno ambo.

Ambo perché, tra le polemiche e gli apprezzamenti del presidente americano Donald Trump («è la più sexy in circolazione», ha commentato), il titolo del marchio è salito in borsa per almeno due settimane. Non urliamo “bingo” perché lo spot è di modesta originalità: vero è che le bionde sexy (e repubblicane), dopo anni di pubblicità inclusive con modelle non binarie, obese o con le ascelle pelose, sono tornate un’idea rivoluzionaria ma, e sai la novità, siamo attratti da persone attraenti. Inoltre, il gioco di parole tra le parole “jeans” e “genes” (geni) è antico come i centrini della nonna. «I geni vengono trasmessi dai genitori ai figli, determinando caratteristiche come il colore dei capelli, la personalità o il colore degli occhi. I miei jeans sono blu», dice Sweeney, mentre la telecamera le inquadra il volto rivelando i suoi occhi azzurri.

860x570

L’eco è la campagna di Calvin Klein del 1981 con una Brooke Shields quindicenne che si dimenava in un paio di calzoni super attillati e recitava: «Il segreto della vita si nasconde nel codice genetico. I geni sono fondamentali per determinare le caratteristiche di un individuo e trasmetterle alle generazioni successive». Oltre ai cliché, però, a far funzionare lo spot è il basso continuo dell’America First e del Make America Great Again: il nazionalismo trumpiano non poteva che passare dall’indumento indossato da chi ha costruito gli Stati Uniti, dagli attivisti che li hanno contestati (vedi Martin Luther King a Birmingham, in Alabama, nel 1963), dagli studenti, dagli hippie e dalle femministe negli anni Sessanta e Settanta, da chi gli Usa li ha difesi e ne ha esportato la libertà fin dalla Seconda guerra mondiale (quando il muro di Berlino cadde nel 1989, i giornalisti furono sorpresi di vedere i giovani berlinesi dell’Est vestiti esattamente come i loro cugini occidentali, in jeans stonewashed), da chi li ha guidati (Jimmy Carter li usava per andare a pescare, George W. Bush per sembrare l’uomo qualunque).

1496x911

La storia dei jeans s’interseca persino con quella della scoperta dell’America: c’è chi, romanzando qua e là, sostiene che fossero in denim anche le vele dell’ammiraglia di Cristoforo Colombo. Vennero brevettati nel 1873 da Levi Strauss e Jacob Davis, che s’inventò di applicare dei rivetti in rame alle parti più soggette ad usura, le tasche per esempio. Costruiti per durare, l’opposto dell’obsolescenza pianificata dei vestiti di oggi. Nel 1886 Levi’s aggiunse la toppa in pelle con il marchio di fabbrica dell’azienda: due cavalli che tirano i jeans in direzioni opposte senza riuscire a strapparli. Erano segno distintivo dei volti con cicatrici, rughe, erosioni di minatori, boscaioli, braccianti, cercatori d’oro e cowboy del selvaggio West, prima che negli anni Trenta Hollywood li rendesse roba da star («Nel profondo del cuore di ogni americano... c’è un desiderio per la frontiera», scriveva Vogue nel 1935, consigliando ai lettori di abbinare al denim uno Stetson con la tesa non troppo ampia, fastoso ma tradizionale, per avere quell’aria «libera di spavalderia» da mandriano), i jeans sono trasversali in una terra in cui l’ascensore sociale ancora esiste perché irrorato dal sogno americano.

866x660

Li rese cool James Dean, che li indossava nella locandina di “Gioventù bruciata” nel 1955. Prima di lui vennero Marylin Monroe, ne “La confessione della signora Doyle” nel 1952, e due anni più tardi Grace Kelly, l’incarnato color panna e fragola sulla copertina della rivista Modern Screen, e Marlon Brando ne “Il selvaggio”, intagliato nel granito con una giacca di pelle, t-shirt bianca e jeans. Moderna statua equestre. Come nel 1991 Brad Pitt, che in uno spot della Levi’s usciva di galera in boxer perché i pantaloni se li erano tenuti i secondini, ma fuori lo aspettava una stangona che gli lanciava un paio di 501 e gli si avvinghiava (prego cercare su YouTube). Braghe da sempre a buon mercato, a patto che non finiscano sulle passerelle. Fu Yves Saint Laurent, in un’intervista a fine carriera, ma non viene da prenderlo granché sul serio, a confessare il suo unico rimpianto: non aver inventato i blue jeans. «Hanno espressione, modestia, sex appeal, semplicità - sospirò - Tutto ciò che spero siano i miei vestiti».

Attraversando i confini dell’ideologia, della classe, del genere e della razza, i jeans hanno un tale immaginario e un tale mercato - sono un’industria globale da 86 miliardi di dollari che oggi, giunti alla propaggine di Sweeney, suggeriscono anche una conclusione sociale e politica: dopo essere stati indossati negli ultimi decenni dagli hipster delle metropoli che niente avevano dell’eroismo dei cowboy, son tornati a casa, dai colletti blu e dalla classe operaia che ha votato Trump. Venduti, ovviamente, dalla bellissima ragazza della porta accanto.