Il confuso ritorno del sogno eurasiatico

Con la trasferta cinese e con quella americana di qualche settimana fa, Mosca mostra al mondo intero non solo di non essere isolata, ma anche di essere protagonista sulla scena globale
di Corrado Oconelunedì 1 settembre 2025
Il confuso ritorno del sogno eurasiatico

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«Eurasia senza Occidente», così Novosti, l’agenzia statale russa (e già prima sovietica), ha salutato il viaggio di Putin in Cina. Il senso è chiaro: con la trasferta cinese e con quella americana di qualche settimana fa, Mosca mostra al mondo intero non solo di non essere isolata, ma anche di essere protagonista sulla scena globale, ove sembrano disegnarsi nuovi e diversi equilibri politici rispetto al passato. La domanda che bisogna porsi è però se il concetto di “Eurasia” sia veramente il più appropriato a definire i nuovi assetti di potere auspicati. Prima di tutto un cenno storico: l’eurasismo è un movimento culturale e politico nato negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’ottobre, fiorito poi negli ambienti «dell’emigrazione politica. Fu Lenin stesso ad organizzare, nel 1922, le cosiddette “navi dei filosofi”, ove gli intellettuali non allineati al nuovo regime sovietico venivano stipati e poi espulsi.

SPIRITUALITÀ
Molti di costoro leggevano i recenti avvenimenti come l’espressione di un’ideologia materialista ed atea tipicamente occidentale, quella marxista, che poco aveva a che vedere con la tradizione di pensiero fortemente spiritualista che era propria della Russia profonda. Lungi dal rappresentare un elemento critico dei valori occidentali, i comunisti ne erano, alla pari dei liberali, i figli naturali. Gli euroasiatisti, in un colpo solo, mettevano così in discussione tutti i tentativi di apertura all’Europa che avevano segnato la storia russa da Pietro il grande in poi. Essi erano da considerarsi il prodotto delle idee di una classe dirigente estranea alla più vera anima russa, che guarda a oriente e affonda le radici nel vasto continente asiatico. Quell’Asia che la Russia quasi avvolge, in una sorta di abbraccio, con la sua vasta estensione dagli Urali fino allo stretto di Bering: un immenso laboratorio di esperienze spirituali e mistiche che oggi, opportunamente riattivate, potrebbero dar vita a una nuova cultura politica. È proprio questa idea che ha fatto breccia negli ultimi anni non solo in una parte dell’intellettualità russa ma anche, che è quel che più conta, nel cuore di Putin, che in più di un’occasione ha insistito sul fallimento dei valori occidentali e sulla necessità di ritornare alle sane radici incarnate dal suo popolo. In una significativa intervista rilasciata al Financial Times poco prima dell’aggressione all’Ucraina, il leader russo definì il pensiero liberale «obsoleto».

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Se il termine “Eurasia” significa tutto questo, è evidente che l’uso che se ne fa in questi giorni a Mosca è del tutto velleitario. Per due motivi soprattutto: uno storico-concettuale e l’altro politico. Dal primo punto di vista, è innegabile che quel concetto conserva il carattere reattivo che è nella sua genesi, non indicando in positivo nulla di concreto se non un vago richiamo a un pensiero spirituale che, fra l’altro, è elemento interno allo stesso occidente, un momento della eterna dialettica in cui si è svolta la sua storia.

CHI COMANDA?
Che avrebbero da spartire, in una sintesi futura, il sufismo dei musulmani, la spiritualità ortodossa, il tradizionalismo induista, il confucianesimo cinese? E, pur nella loro diversità, queste tradizioni non sono state oggi soppiantate dal dominio incontrastato e planetario della tecnica, che fra l’altro è prodotto tipicamente occidentale? Da un punto di vista politico, è poi evidente che se un blocco di potere euroasiatico dovesse oggi nascere, esso avrebbe la leadership cinese e non certo quella russa. Che è l’esatto contrario di quel che hanno auspicato e auspicano gli euroasiatisti di ieri e di oggi.