Per arrivare alla «pace eterna» (cit. Donald Trump) tra Israele e Palestina servono tre attori, e cioè le due parti in campo e un mediatore. Nel nostro caso, ammesso di essere davvero all’alba del cessate il fuoco, ne abbiamo due soltanto, ma che contano per tre, al punto da aver cambiato il quadro diplomatico che ha portato alla speranza di oggi. L’opera di mediazione è dell’attuale presidente degli Stati Uniti d’America; nel campo da un lato c’è il premier israeliano Benjamin Netanyahu, dall’altro lato c’è un Senza-volto a due teste, ovvero Hamas (l’ala politica con sede in Qatar e i miliziani nei tunnel di Gaza, il cui leader Ezzedin al-Haddad si è detto pronto a consegnare razzi e altre armi offensive, ma vuole mantenere le armi difensive come i fucili d’assalto). Cominciamo dall’inquilino della Casa Bianca che in Medio Oriente, fin dal suo primo mandato, è stato costantemente impegnato nella negoziazione e ha corso rischi che nessun altro presidente americano avrebbe mai affrontato. Ed è infatti riuscito dove Joe Biden ha traccheggiato, minando lui sì, e non ora Trump, la credibilità internazionale americana, già lesa per il rovinoso ritiro dall’Afghanistan nell’agosto del 2021. John Gans, un ex funzionario del Pentagono, dopo aver visto gli elicotteri evacuare gli americani dall’ambasciata a Kabul come nel 1975 a Saigon, paragonò le ricadute politiche per Biden a quelle che John F. Kennedy affrontò dopo l’invasione della Baia dei Porci a Cuba. Lo slogan “la competenza al governo”, uno dei punti di forza della campagna elettorale del democratico, si sfarinò in appena otto mesi di mandato. Al punto che Netanyahu nemmeno alzava più il telefono per rendere conto all’alleato storico delle operazioni che stava conducendo sul campo.
L’ex tycoon invece è o “il presidente della pace” (attraverso la forza): dal 2016 al 2020, dopo la politica mediorientale confusa, incerta e mutevole di Barack Obama e Hillary Clinton, ha eliminato il califfo dell’Isis al-Baghdadi e il generale iraniano Qassem Soleimani, il martire a capo della “Brigata Santa”. Ha annullato l’accordo sul nucleare iraniano siglato da Obama che, con il proposito di rendere l’Iran soggetto regionale stabilizzante, avrebbe dato a Teheran una via alle armi nucleari. Ha rinsaldato l’asse storico degli Usa con l’Arabia Saudita (Riad è stata la prima visita ufficiale del presidente all’estero nel primo e nel secondo mandato), con le monarchie petrolifere del Golfo e con Israele come solido asse anti-iraniano. Ha rafforzato la posizione di Israele in Medio Oriente, ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme e ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan. Con gli Accordi di Abramo, nel settembre 2020, ha normalizzato le relazioni diplomatiche di Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, e in un secondo momento con Sudan e Ma rocco. Appena rieletto, il commander-in-chief è tornato al lavoro sull’ordine geopolitico post-Accordi di Abramo, che hanno resistito nonostante le spallate di Biden e dei terroristi, da Hezbollah ad Hamas. La grandiosa iniziativa seguirà anche una logica immobiliarista, portato e complemento dell’universo trumpiano (siamo alla vetta delle critiche della sinistra), ma è meglio delle guerre infinite. Notare che a parlare di programmi di sviluppo economico, di attrarre investitori, imprenditori e turisti, sono prima di tutto le sei monarchie regionali che della stabilità fanno un imperativo strategico condiviso.
Trump ha poi avviato una compagna di bombardamenti contro i ribelli Houthi in Yemen; in Libano, ha aiutato Israele nel ridurre l’arsenale di Hez bollah; rovesciato Assad, ha accolto con una pacca sulla spalla il leader siriano al-Shara’; ha colpito le centrali nucleari iraniane senza entrare in guerra; ha consentito che Israele colpisse i leader dei tagliagole in Qatar senza provocare uno scisma irreparabile per la normalizzazione della regione. Adesso potrebbe essere riuscito a convincere i Paesi arabi, il Qatar, l’Egitto, la Turchia (Erdogan abbaia ma non morde), l’Autorità nazionale palestinese, e pure Netanyahu, ad accettare un accordo che porrebbe fine ai combattimenti, permetterebbe agli ostaggi di tornare a casa o di essere pianti, con l’obbligo per Hamas di consegnare le armi e lasciare il potere, ma impedirebbe qualsiasi spostamento forzato dei gazawi. E potrebbe anche offrire al premier israeliano una via d’uscita. Netanyahu ha subìto, non senza errori di valutazione delle informazioni ricevute dal Mossad, l’attentato più terribile, il 7 ottobre, seguito da due anni di guerra per la liberazione dei rapiti e condotta su sette fronti (Gaza, Iran, Yemen, Siria, Cisgiordania, Iraq, Libano) più uno, quello della propaganda mediatica. Eppure, Bibi non ha mai ceduto alla tentazione di mostrare al mondo i video di ciò che Hamas ha fatto agli ebrei dei kibbutz, ai ragazzi del Nova festival, alle donne, ai bambini, agli anziani. Perché, come ha scritto il filosofo Pascal Bruckner a proposito della rivolta nel ghetto di Varsavia, «gli insorti lo sapevano, c’è una cosa peggio del male, è il disonore di non avergli resistito». Il terzo attore è Hamas, che con la violenza parla il linguaggio della pace, usa fanatismo e lo innalza a religione, sfodera l’arma dell’aggressione mistificata come autodifesa, partorisce terroristi e li chiama martiri. Che godrà per sempre dell’arroganza dell’anonimato.