L’apocalisse, per ora, è quella della logica. La cronaca pazzotica di queste ore recita quanto segue: il comandante in capo del mondo libero (piaccia o no si chiama Donald J. Trump, ed è seduto sul complesso militare-industriale del Pentagono, non sulle tonnellate di regolamenti e buoni sentimenti europei) non solo mostra di non subire la messa in scena nucleare di dittatori e canaglie globali assortite, ma rialza l’asticella della deterrenza, conscio che i suoi primi due sinonimi sono la potenza e la credibilità. E nel tinello del mainstream nostrano lo scandalo diventano le sue parole, non gli atti altrui, in primis quelli di Vladimir Putin che in due giorni ha fatto testare il drone sottomarino Poseidon e il missile Burevestnik, entrambi in grado di trasportare testate nucleari.
Voilà il verbo trumpiano: «A causa dei programmi di test di altri Paesi, ho incaricato il Dipartimento della Guerra di iniziare a testare le nostre armi nucleari su un piano di parità». Tecnicamente, un capolavoro di ambiguità: preso alla lettera, evoca la ripresa delle esplosioni controllate delle armi atomiche, che gli Stati Uniti non effettuano più dal 1992 (la Russia-Urss dal 1990, la Cina dal 1996). Ma l’allusione potrebbe essere anche ai cosiddetti “test subcritici”, tesi a verificare l’affidabilità delle testate senza ricorrere a esplosioni vere e proprie, o semplicemente a test sui vettori analoghi a quelli russi. La sostanza geopolitica e strategica, viceversa, è chiarissima: una ritrovata assertività americana nel gioco reciproco della deterrenza, di più, una disponibilità a guidarlo, scommettendo sulla coerenza degli autocrati incendiari, che si arrestano davvero soltanto davanti a un fiammifero più persuasivo. I primi destinatari del messaggio stanno a Mosca (incendiario immediato che scomoda l’escalation atomica ogni giorno, per coprire gli avanzamenti al rallentatore in Donbass) e a Pechino (incendiario prospettico che fa del programma di ammodernamento ed espansione dell’arsenale nucleare un pilastro della sfida egemonica agli Usa e all’Occidente).
Reazione media del Commentatore Unico Antitrumpiano: l’Orco rilancia lo “spettro nucleare”. L’espressione preconfezionata campeggiava su entrambe le versioni della testata ancipite del gruppo Gedi, Repubblica e Stampa. Sulla prima, Gianluca Di Feo chiudeva la sua analisi con una sentenza quasi compiaciuta: «L’uomo che ambiva al Nobel per la Pace adesso rischia di riaprire la sfida più letale di tutte».
Sulla variante sabauda, Nathalie Tocci si struggeva perché «l’annuncio di Trump rappresenta l’ultimo tassello del tragico processo di smantellamento del regime di controllo degli armamenti nucleari» (ovvero di qualcosa che per Russia e Cina equivale ormai a un flatus vocis, stando ai report dell’intelligence statunitense). Per l’ennesima volta, si rifiutano a priori di ipotizzare una qualunque forma di razionalità strategica trumpiana. La quale invece, per quanto anomala e (spesso felicemente) sparigliante, esiste eccome. In questo caso, che poi è l’unico che conta, trattandosi dello scenario da fine di mondo, sembra proprio che Trump stia combinando la classica postura da “distruzione reciproca assicurata” (per quanto voi sfoggiate missili ipersonici e manovre comuni, io sarò sempre in grado di sferrare il Second Strike con tutta la potenza americana) con la variante nixoniano-kissingeriana del “Cane Pazzo”: occhio, che io non escludo di far saltare il banco, ho nel canovaccio la reazione sproporzionata e posso scatenarla. Sicuramente, posso risdoganare i test nucleari. Sicuramente, l’ipotesi non ha fatto piacere a Putin e Xi Jinping. Per una banale proprietà transitiva valoriale, non dovrebbe dispiacere agli uomini liberi.




