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Social vietati agli under 16? Giusto, proteggere il loro sviluppo

Non serve demonizzare la tecnologia: basta prendere atto che, oggi, cresce più in fretta dei nostri figli
di Simona Plettogiovedì 11 dicembre 2025
Social vietati agli under 16? Giusto, proteggere il loro sviluppo

3' di lettura

Da madre, prima che da giornalista, dico subito da che parte sto: i social ai minori andrebbero vietati, e non per prudenza, ma per lo stesso motivo per cui non metterei mai una sigaretta in mano ai miei figli. E di figli ne ho quattro: due ormai adulti e due di quattro anni, ancora con le ginocchia sbucciate e i giochi sparsi sul pavimento. I più grandi sono cresciuti dentro un’infanzia con almeno un piede nella realtà. I piccoli, invece, rischiano di non scoprirla mai, se lasciamo che a educarli sia uno schermo. Per questo guardo alla decisione australiana come a una misura che definisce una responsabilità collettiva. Non serve demonizzare la tecnologia: basta prendere atto che, oggi, cresce più in fretta dei nostri figli.

Se vietiamo fumo e alcol a chi non è pronto a gestirli, perché dovremmo regalare ai minori una dipendenza (perché di questo si tratta) più subdola, quella digitale? I social non corrodono i polmoni: modellano il cervello. E un cervello adolescente è un cantiere aperto. Le neuroscienze lo dimostrano: la materia bianca che sostiene apprendimento e attenzione subisce alterazioni quando l’esperienza reale viene sostituita da quella virtuale. La dopamina, quella che ci spinge a cercare piacere e ricompensa, non distingue tra una sigaretta e un like. Vuole solo che il rituale continui, un post dopo l’altro, uno scroll che diventa abitudine. Così si cresce senza pensare, si scivola nel pensiero veloce, superficiale, in un mondo dove le immagini sono perfette e la vita, inevitabilmente, no.

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Io voglio che i miei figli si annoino, che trovino da soli qualcosa da fare, che imparino a tenere in mano un libro senza la tentazione di interromperlo ogni due minuti per controllare qualcosa. Difendere la fatica dell’attenzione è quasi un atto ribelle, oggi. Eppure è lì che si forma la capacità di scegliere, giudicare, conoscere. Tutto quello che i social, troppo presto, rischiano di spegnere. Potremmo spendere serate a spiegare, dialogare, proporre alternative “buone”, ma intanto sappiamo che anche il migliore dei consigli, con un cellulare in tasca, perde la battaglia contro l’istinto di riaccenderlo. Per me a 12 anni, non è una decisione: è un richiamo, come un profumo irresistibile. E il rischio di diventare bulimici da social, e di avere crisi da astinenza, è alto.

Qualcuno dice che servirebbe educare, non vietare. Certo: basterebbe che ogni famiglia avesse l’energia, il tempo, la lucidità di farlo. Ma la verità è che molti genitori, me compresa, sono spesso soli in questa battaglia quotidiana. Una legge non sostituisce l’educazione, ma ci mette spalle al muro: ci obbliga a fare ciò che da soli spesso non riusciamo a sostenere con coerenza. È un’alleata scomoda, come tutte le regole che ci chiedono fatica, ma che alla fine salvano chi non ha ancora gli strumenti per salvarsi da solo.

Il problema sarà farla rispettare. Lo vedo già: in Australia ci sarà già chi sta studiando come aggirare la legge. E finirà che, davanti alle suppliche dei figli, si cederà al “solo per un minuto”, all’account finto creato in cinque minuti, al bambino che si registra come papà, mamma o nonno. Il rischio è che diventi un gioco delle parti: social vietati ufficialmente e frequentati clandestinamente, con la benedizione degli adulti stanchi. Ma è proprio questo il punto: crescere significa imparare a sentirsi dire di no. Anche quando piangono e ci implorano. Proteggerli adesso è dare loro libertà dopo. E questa, sì, è una responsabilità che non possiamo delegare agli algoritmi.

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