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Mario Draghi, blitz delle cancellerie straniere a 2 settimane dal voto: Italia commissariata, dove lo spediscono

 Mario Draghi

Fausto Carioti
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La conferma che per il Quirinale ora si fa sul serio non viene da Roma, dove sulla questione ci si agita da mesi, ma da Washington, Bruxelles, Parigi e dalle altre sedi di governi "vicini" all'Italia. Cancellerie e ambasciate hanno alzato il livello del pressing sui leader di partito, spiegando quali "figure" gioverebbero alla causa comune e quali no. I candidati lo sanno e chi può, tra loro, esibisce amicizie internazionali e certificati di affidabilità rilasciati all'estero. Perché se è vero che a votare sarà l'assemblea dei 1.009 "grandi elettori", è vero pure che per essere trattati da protagonisti sul grande palcoscenico, anziché come sottoprodotti del guazzabuglio politico italiano, sono necessari rapporti solidi con chi comanda nell'alleanza atlantica e nei Paesi amici, ed occorre aver superato a pieni voti certe prove di appartenenza.

 

 

I VETI ALLA CINA SUL 5G
Caratteristiche che Mario Draghi e Sergio Mattarella hanno. Il presidente del consiglio lo ha dimostrato più volte in quest' anno, anche usando i propri poteri speciali per bloccare l'ingresso dei colossi cinesi Huawei e Zte nella costruzione della rete mobile di telecomunicazioni di quinta generazione. Una questione che l'amministrazione di Joe Biden considera «strategica», e quindi decisiva per distinguere chi è un amico vero e chino. La stessa lealtà non era stata dimostrata da Giuseppe Conte, e infatti a Washington nessuno ha versato una lacrima per la sua uscita da palazzo Chigi. Del resto, pure quando era al governo, i leader occidentali che volevano "parlare con l'Italia" componevano il numero di Mattarella, non quello dell'avvocato pugliese. Niente di strano, quindi, che la conferma di Draghi e Mattarella negli incarichi attuali sia un'opzione assai gradita agli "interlocutori" europei e statunitensi. Le cui preoccupazioni e speranze assomigliano molto a quelle che si possono leggere in certi commenti della stampa italiana, come l'editoriale apparso ieri sul Corriere della Sera, in cui Ferruccio de Bortoli chiede di «lasciare tra il Quirinale e palazzo Chigi le cose come stanno».

 

 

Il primo destinatario di questi messaggiè Mattarella, il quale, però, continua a non avere alcuna intenzione di fare il "bis". Resta comunque Draghi, considerato imprescindibile in uno dei due incarichi. Tramite le colonne della Stampa, da Bruxelles fanno sapere che, se il premier si trasferisse al Quirinale, il suo posto a palazzo Chigi potrebbe essere preso da Paolo Gentiloni, che lassù (soprattutto i socialisti) considerano uno dei loro. Resta da capire per quale motivo il centrodestra, maggioranza relativa nell'aula che sceglierà il successore di Mattarella, dovrebbe avallare una simile soluzione. Proprio perché sa quanto la variabile estera sia importante in questa gara, Silvio Berlusconi ha voluto mostrare di non essere secondo a nessuno. Sul Giornale, ieri, è uscita una lunga intervista allo spagnolo Antonio Lopez, segretario del potente Partito popolare europeo. «Una presidenza di Berlusconi con un capo del governo come Draghi», dice Lopez, «sarebbe imbattibile e promuoverebbe l'Italia ancora più della già alta posizione di cui gode». E ancora: «Nessuno ha come Berlusconi la capacità di coltivare e rendere immediatamente accessibili i rapporti personali, informali con i grandi del mondo». Insomma, l'"endorsement" perfetto. Chi, a sinistra, sperava di dipingere il Cavaliere come un paria della politica mondiale, dovrà inventarsi qualcos' altro.

 

 

I GILET GIALLI E I SERVIZI
Non sempre, però, i rapporti internazionali aiutano, e lo dimostra proprio il caso del ministro degli Esteri. Luigi Di Maio si sta industriando per rimpiazzare Draghi alla guida del governo, qualora l'ex presidente della Bce prendesse il posto di Mattarella. Il 35enne irpino ha usato l'incarico alla Farnesina per provare ad accreditarsi come statista e ricucire i rapporti con gli Stati Uniti, dove certe campagne del M5S, tipo quella per smantellare la stazione siciliana del Muos, il sistema satellitare americano di comunicazioni militari, non sono state dimenticate. C'è riuscito solo in parte. Da Parigi hanno fatto sapere che il suo nome è sempre sulla lista nera di Emmanuel Macron, dove Di Maio figura dal dicembre del 2018, quando si schierò con i rivoltosi in gilet giallo e contro il presidente francese. Quanto agli Stati Uniti, il suo problema ora si chiama Beppe Grillo. Ogni volta che il fondatore del movimento apre bocca per elogiare il regime di Pechino, come ha fatto pure l'altro giorno, al Dipartimento di Stato americano prendono nota, e le possibilità che Di Maio o un altro pentastellato guidino il governo scendono di un'altra tacca. Nemmeno il precedente di Conte aiuta. L'uso «non ortodosso» (così lo definisce una fonte diplomatica) che fece dei servizi segreti quando era a palazzo Chigi ha lasciato il segno anche all'estero e oggi l'idea di vedere un altro dei Cinque Stelle accedere al livello di informazioni riservato al presidente del consiglio suscita una certa inquietudine tra gli alleati. 

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