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De Pasquale, la toga anti-Cav a giudizio per "depistaggio"

 Fabio De Pasquale

Francesco Specchia
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Quando si dice gli arabeschi della giustizia. Chissà cosa avrà provato. Chissà che tumulto nel cuore avrà avuto, che pensieri lividi avrà mai distillato, ieri, il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale all'ascolto della pronuncia del suo rinvio a giudizio. Da persecutore a perseguitato, il dottore De Pasquale: il tormento dell'uomo dei grandi processi e delle grandi ambizioni.

È stata una decisione, quella del suo rinvio a giudizio - assieme al collega pubblico ministero Sergio Spadaro ora alla Procura antifrode -, presa dal gup del tribunale di Brescia Christian Colombo e mossa dall'accusa di «rifiuto di atti d'ufficio». Perché, secondo l'ipotesi, i due magistrati non avrebbero depositato prove favorevoli agli imputati - poi tutti assolti definitivamente- nel processo che riguardava la presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari pagata dall'Eni alla Nigeria (poi rivelatasi inesitente) per la gestione del giacimento di petrolio Opl 245. Si trattava di prove ad alto potenziale. Erano state segnalate loro dal collega Paolo Storari riguardo la «non attendibilità dell'imputato-accusatore di Eni Vincenzo Armanna».

 

 

IL PLICO NELL'OBLIO - C'erano, in quel plico affondato nell'oblio, conversazioni su Whatsapp, una nota della società Vodafone e la videoregistrazione di un incontro dove Armanna esprimeva «propositi ritorsivi» nei confronti dei vertici Eni. E Armanna era il perno dell'impianto accusatorio della Procura, appunto. Imputato nel processo e testimone dotato di credito esagerattissimo, nella registrazione parlottava con l'avvocato Piero Amara, ex legale di Eni, l'uomo diventato celebre nei talk tv per i silenzi ad orologeria e la costruzione metafisica della cosiddetta «Loggia Ungheria». E lì, nella registrazione, secondo i giudici, sarebbe emerso il progetto di Armanna di «ricattare i vertici della società petrolifera», preannunciando l'intenzione di rivolgersi ai magistrati milanesi per far arrivare «una valanga di merda»; e «un avviso di garanzia» ad alcuni dirigenti della società. Tutti elementi acquisiti nel corso dell'inchiesta sul cosiddetto «Falso complotto».

In particolare, dall'analisi del cellulare, era emerso che l'ex manager Eni aveva versato 50mila dollari a due testimoni per spingerli a confermare in aula le sue dichiarazioni «etero-accusatorie» contro la società del cane a sei zampe.

Inoltre, c'era stato l'indottrinamento di Mattew Tonlagha, amministratore della società nigeriana Fenog, al quale Armanna avrebbe suggerito le risposte agli inquirenti. Erano, i suddetti, insomma, elementi probatori esplosivi. Al punto che, nelle motivazioni dell'assoluzione il tribunale di Milano, aveva sottolineato come risultasse «incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che reca straordinari elementi a favore degli imputati».

In buona sostanza: De Pasquale si era messo d'impegno, per sette anni, per far condannare Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, i vertici della società petrolifera, per corruzione internazionale, impedendo il diritto costituzionale della difesa. La sentenza di primo grado aveva assolto «perché il fatto non sussiste» oltre a Scaroni e Descalzi, gli altri tredici imputati, comprese Eni e Shell; e la sentenza divenne poi definitiva. Molti ricordano, nel luglio dello scorso anno, la scelta delle parole al fosforo e il tono durissimo dell'invettiva con cui la collega della Procura generale Celestina Gravina annunciava, nell'aula in cui si sarebbe dovuto celebrare il processo di secondo grado nei confronti della dirigenza Eni per una corruzione cinematografica, che il suo ufficio rinunciava all'appello. Non fu un bello spettacolo.

 

 

Specie per De Pasquale. Il quale, assieme a Spadaro, aveva sempre professato di aver agito in modo corretto nell'alveo della prerogativa sulla «discrezionalità dell'attività di udienza». Cioè la risposta all'accusa delle toghe, negli interrogatori del 2 novembre scorso, era che il mancato deposito fosse stata «una scelta ponderata e comunicata», attraverso una relazione, all'allora procuratore della Repubblica Francesco Greco e all'aggiunto Laura Pedio, i quali avevano condiviso la loro decisione. Lo sapevano tutti, insomma. Todos caballeros.
Alla faccia del "giusto processo".

LE BACCHETTATE ALLE TOGHE - Peraltro, il provvedimento di cui sopra stabilì pure che il governo della Nigeria non aveva alcun diritto ad alcun risarcimento in sede civile. E arrivò una bacchettata dai vertici massimi del tribunale milanese; Roia e Ondei, al gruppo anticorruzione dell'Ocse, schierato con De Pasquale. Il concetto come scrisse, allora chiaramente il quotidiano il Riformista, era: «Se due Corti di giustizia inglesi e una nigeriana, oltre a sette magistrati italiani, sia giudici che inquirenti, hanno già bocciato l'ipotesi di corruzione internazionale del "caso Eni", è il caso di insistere ancora?». No che non era il caso. Eppure, l'insistenza di De Pasquale si era mutata in una sorta d'ossessione, e d'umilazione. Il pm non si era solo limitato a ricorrere in appello dopo le assoluzioni del 2021, ma era arrivato a candidarsi a sostenere il ruolo dell'accusatore anche in secondo grado. Non era il caso. Gli venne preferita proprio Gravina. Da lì, in poi, la vicenda s' intreccia con i mille, caotici sommovimenti che avrebbero invaso la Procura di Milano regnante Greco. Ma questa è un'altra storia. Tra testi pilotati e depistaggi, il dibattimento per De Pasquale e Spadaro si aprirà il prossimo 16 marzo davanti ai giudici della prima sezione penale del Tribunale bresciano. Vedremo... 

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