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Piercamillo Davigo, "non ci sono innocenti"? Lo strano destino dell'ex pm

Filippo Facci
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L'errore più grande sarebbe compiacersi, dare la notizia della condanna di Piercamillo Davigo a un anno e tre mesi (per rivelazione di segreto d’ufficio) vaneggiando di «nemesi» con un sottinteso «tiè» che sarebbe solo giustizialismo visto di spalle, sarebbe una rivincita giocata nello stesso campionato giudiziario le cui regole, invece – ripetiamo – vanno cambiate e si vanno cambiando: regole di tutela che appunto valgono anche per lui, Davigo, innocente sinché la condanna non passerà in giudicato (vagliata dalla Cassazione, se ci si arriverà) senza che le motivazioni che giustificheranno entro 30 giorni la sua carcerazione (che non sconterà, perché la pena è bassa) siano da considerare oro colato: l’abbiamo sempre detto che la giustizia in Italia è un terno al lotto – senza nulla togliere alle valutazioni probatorie dei giudici bresciani – e quindi lo sappiamo bene che poteva andare diversamente, che per fortuna il condannato potrà ricorrere in Appello (Davi go l’ha già annunciato) e insomma, come si dice, non è questo il punto.

Il punto è che il ricorso in Appello, Davigo, voleva abolirlo, come invocava anche il suo ventriloquo Marco Travaglio prima di proporre Appello per una serie di condanne per diffamazione. Lo stesso, ora, ha fatto anche Davi go, che negli anni si è ammorbidito, tanto che ha proposto l’abolizione, in opzione, della cosiddetta reformatio in peius, ossia l’impossibilità che una condanna in Appello possa (essere peggiorata rispetto al primo grado: più tutta una serie di altri limiti che Davigo ha sempre teorizzato che andassero applicati ai ricorsi in Appello e in Cassazione.

 

E qui è arduo non compiacersi, mantenersi garantisti con un signore che è stato temibile pm del pool Mani pulite nel 1992-1994, poi giudice e presidente di sezione di Cassazione, infine componente del Consiglio Superiore della magistratura sino al pensionamento nell’ottobre 2020, conosciuto per varie battute, tra le quali questa: «Non esistono innocenti, ma colpevoli non ancora scoperti». Beh, l’hanno scoperto.

Difficile sottrarsi a ironie circa una condanna per rivelazione di segreto istruttorio che Davigo, sin dal 19 dicembre 1992, disse che, come reato, in pratica non esisteva più. Difficile, per i malati di memoria, non ricordare che il giudice che l’ha condannato – il presidente della prima sezione Roberto Spanó – è lo stesso che più di 25 anni fa sentenziò il «non luogo a procedere» per la maggior parte dei processi bresciani contro Antonio Di Pietro: un garantista al cubo.

Difficile anche scacciare il ricordo dell’ultimo libro di Davigo, pubblicato nel tardo novembre 2021, dove in quarta di copertina si leggeva che l’ex magistrato tracciava «un bilancio decisamente amaro» che molti tradussero in «amara», Piero Amara, il faccendiere i cui verbali Davigo avrebbe illecitamente divulgato: da qui la condanna di ieri. Nondimeno complicato, per chi il libro l’abbia addirittura letto, scacciare qualche sarcasmo per quanto è scritto a pagina 198: «Non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento, certo che emergerà l’infondatezza dell’accusa».

SEGRETARIE
Addirittura da cultori, poi, accorgersi che nella nemesi storica di Davigo c’è sempre una segretaria di mezzo: a pagina 197 del libro si legge che «secondo notizie di stampa la mia ex assistente di segreteria sarebbe stata l’autrice della divulgazione» dei verbali di Amara al Fatto Quotidiano, giornale sul quale Davigo scrive abitualmente; così pure, il 21 novembre 1994, quando l’allora premier Silvio Berlusconi stava per ricevere un celebre «invito a comparire», l’iscrizione nel registro delle notizie di reato avvenne dal computer di Davigo che era accessibile a pochi, tra i quali la sua bionda segretaria, che in seguito fu calunniata da chi raccontò che era stata proprio lei a passare la notizia a un giornalista del Corriere che aveva in simpatia. Il mondo, e violazione del segreto, girano sempre attorno a una cosa sola: la figura della segretaria. Così però ci stiamo compiacendo, ma non è tutta colpa nostra: è che il diavolo ci ha messo pentola e coperchio.

 

Nel giugno 2021 fu Davigo a criticare le proposte della Commissione Lattanzi (detta Commissione Cartabia) dicendo che in Italia le pene sono troppo basse, questo a dispetto di massimi edittali che sarebbero anche elevati: colpa soprattutto delle «attenuanti generiche» introdotte dopo il fascismo, disse lui, usate per «attestare le pene verso i minimi». Bene: è solo grazie alle attenuanti generiche se ora Davigo ha preso un anno e tre mesi, altrimenti finiva peggio, anzi, peius. 

SFONDI POLITICI
C’è anche un leggero sfondo politico: Davigo è sempre stato ritenuto l’ideologo della riforma Bonafede, e, impalcandosi sul Fatto Quotidiano, rappresentava un vangelo per la corrente grillina più forcaiola e ora la sua condanna diviene l’effige della definitiva sconfitta di una disgraziata stagione. Che non è l’unica stagione, peraltro, su cui è calato inesorabilmente il sipario. A reggere lo scettro del duro e puro resisteva giusto lui, Davigo, con Di Pietro che si è leggermente sputtanato e fa il contadino, con Gerardo D'Ambrosio che è diventato senatore di sinistra e poi è morto, con Francesco Saverio Borrelli che è morto anche lui pronunciando frasi inquietanti (disse che Mani pulite era stata un errore) mentre Gherardo Colombo è andato in pensione dopo una parentesi in Rai da rassegnato educatore civico. E Davigo, ora, come vorrebbe essere ricordato? 

Non certo come uno che comunicava notizie riservate a un parlamentare dei Cinque Stelle in un sottoscala del Csm, né come uno che ignorasse o violasse procedure, o come uno che dice di aver consegnato qualcosa a qualcuno, tipo il vicepresidente del Csm David Ermini - col vicepresidente Ermini poi a smentire tutto. Non vorrebbe essere ricordato neppure come un ragazzino cresciuto da una zia, nella Lomellina pavese, che si chiamava Benita, e che è stata indicata come «rigida e autoritaria». Ci sarebbero infiniti aneddoti, infinite sue frasi impietose per ricordarlo, ma ce ne facciamo bastare una sola sulla presunzione d’innocenza: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». Davigo è già a casa, coerentemente: da pensionato. E resta una persona tutt’altro che stupida - un camerata che sbaglia, secondo malelingue – che in altri termini va considerato un cittadino che merita ogni tutela e tutta la pietà che spesso lui è sembrato non avere, anche se, ora, forse l’avrà capito, che l’ingiustizia è uguale per tutti.

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