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Ennio Amodio smaschera le toghe: "Perché i magistrati non vogliono la riforma della giustizia"

Francesco Specchia
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Sul verbo di pandetta fattosi carne, sul mito della separazione delle carriere dei magistrati diventato finalmente realtà Ennio Amodio ha idee cristalline. Avvocato penalista tra i più pregiati, professore emerito di Procedura penale all’Università di Milano nonché indagatore sciasciano (nel senso di Leonardo Sciascia) della verità, Amodio qui evoca Montesquieu, l’afflato dei padri costituenti e, nel contempo, il buonsenso.

Caro professore Amodio, il ministro Nordio era euforico, ha realizzato tesi che sostiene da 25 anni. E ha ritenuto la separazione delle carriere appena approvata un provvedimento epocale. 
«Per certi versi».
Da dove iniziamo il commento? Dallo spirito originario del processo accusatorio della legge Vassalli, in cui lei, tra l’altro, ha messo lo zampino? 
«Direi di sì. La separazione delle carriere è sacrosanta perché –ricordiamolo- così per principio opera la riforma del codice di procedura penale del 1988 (scritta anche da me). Laddove si pensò di separare di netto la figura del pubblico ministero da quella del giudice giudicante. Cioè, l’obiettivo era di mettere su un gradino più basso il pm: il suo statuto e la sua posizione devono essere identiche a quella della difesa. Per capirci: lo spirito vero del processo accusatorio a cui avevamo collaborato è che la parità è con l’avvocato difensore, non col giudice».

 


Perché allora sia i giudici che i pm, tendenzialmente non sono d’accordo? 
«In realtà la quasi totalità della magistratura converge contro la riforma Nordio, perché la saldatura tra le due categorie rappresenta un’unità, con una grande forza d’urto. Le indagini fanno paura a tutti e possono essere strumento politico, i giudicanti non voglio perdere l’arma dei pm. La magistratura, diceva Montesquieu è un ordine, ma spesso diventa vero potere: basta indagare un politico al momento giusto...».
Insisto. Eppure il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, al recente Convegno di Palermo ha esternato un “no” perentorio alle carriere separate. Secondo lui così salterebbe il sistema «dei pesi e contrappesi» e il magistrato viene irrimediabilmente attratto nella sfera dell’esecutivo. A parte la sfiducia nei colleghi, la sua critica ha un fondamento? 
«Il “non s’ha da fare” di Santalucia poggia sull’assunto che dietro le quinte delle istituzioni ci sarebbe qualcuno, appunto, pronto a soggiogare le Procure al potere dell’esecutivo».
Ma invece qui, scusi, non resta chiara l’inamovibilità dei magistrati tutelata dall’articolo 107 della Costituzione? 
«Sì. Quelle di Santalucia sono tesi infondate, almeno alla luce dei progetti finora messi in cantiere. Che, al contrario, blindano la magistratura requirente sotto l’ala del “suo” organo di autogoverno. La verità, ripeto, è invece che le toghe non tollerano riforme di alcun tipo in casa propria, perché vogliono essere un potere, a dispetto di quanto prevede, in senso contrario, la nostra Costituzione».

 

 

 

Re-insisto. Eppure la Costituzione, all’art 104, stabilisce che la magistratura sia “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”... 
«Vero. Ci sono molti modi (e anche quattro disegni di legge depositati) che comunque accertano sempre l’indipendenza dei pm. E tenga conto anche del comma 4° dell’art. 107 della stessa Costituzione, secondo cui le garanzie per il pm sono diverse e di grado inferiore rispetto a quelle del giudice (per i giudici ci sono garanzie di rango costituzionale, per i pm valgono solo le leggi ordinarie: questione interpretativa, ndr). Il concetto è semplice,guardi».
E sarebbe? 
«Oggi la critica prevede che il pm faccia davvero un passo indietro. Rispetto al giudice ha mansioni completamente: indaga, fa, in pratica, il superpoliziotto».
Lei però non pare essere d’accordo con la creazione di un “doppio Csm” come in Francia (dove le toghe, di fatto dipendono dal ministero delle Giustizia). Questo è il secondo grande elemento della riforma di Nordio: non crede che, invece possa supportare il primo elemento, la separazione? 
«L’unico problema con la nuova proposta del “doppio Csm” -, uno per i giudicanti uno per i pm- è che, paradossalmente, si ottiene l’effetto opposto a quello voluto dal ministro: si evidenza più l’omologazione dei ruoli, che non la parità tra accusa e difesa. Ed è un errore, per me. Il pm deve essere quasi proprio esterno alla magistratura: e, in quanto accusa, non si deve avere proprio la sensazione che rappresenti lo strapotere dello Stato. Guardi, per dirla tutta: si finisce per fornire al pm un ascensore istituzionale che lo porta al livello del giudice».
Cioè, di fatto, lei mi dice che sono stati troppo buoni (seguendo la linea del governo). Molti però potrebbero risponderle che due Csm - che poi sarebbe uno solo, diviso in due e sempre presieduto dal Capo dello Stato siano una sicurezza anche per i giudici ci quali possono essere, essi stessi, oggetto di indagine dei pm. 
«È possibile anche questo, in teoria. Ma consideri che fino al 900 in Inghilterra non c’erano neanche ufficialmente i pm: quel ruolo era svolto da avvocati. Il Csm va tenuto, in questa forma, soltanto per i magistrati giudicanti, onde evitare, davvero, lo strapotere delle correnti».

 


Nordio rivendica il sorteggio per la composizione del Consiglio Superiore: è una buona soluzione? 
«Il sorteggio è un buon metodo, anche se, trattandosi di alta amministrazione, e di incarichi delicatissimi (si tratta pur sempre di magistrati che giudicano altri magistrati), dev’essere fatto tra soggetti di grandissima esperienza e rinomanza».
Mi è chiaro. Ma lei ha una soluzione alternativa al doppio Csm? 
«La soluzione, andando addirittura oltre la riforma, potrebbe essere quella del Regno unito, dove i Pm sono un altro punto di riferimento del Parlamento. Hanno un loro ufficio all’interno di una commissione parlamentare. E salta il meccanismo delle correnti. Per inciso, questa è una proposta che stiamo studiando io e il gruppo di lavoro di giuristi milanesi –avvocati, costituzionalisti, docenti vari-. Così non vorrebbe assolutamente sfiorato il principio della separazione dei poteri, l’esecutivo sarebbe del tutto fuori dalle decisioni. Come è ovvio».
Nordio poi definisce l’idea di un’Alta Corte Suprema giudicante. Anche perché su 1775 fascicoli aperti contro i magistrati appena il 4,6% prevede una sanzione. Diciamo percentuali poverelle, quando si tratta di punire sé stessi. 
«Guardi, un membro del Csm una volta mi confessò: “noi proponiamo azione disciplinare ai nostri solo se i becchiamo con le mani nella marmellata”. Gli interventi del Csm sono quasi sempre blandi perché consolidano certi scambi e certi rapporti. In questo senso, l’Alta Corte di disciplina giudicante va bene, ma dev’essere costituita il più possibile da membri laici. Tra l’altro, è mutuata dagli avvocati. Da qualche anno noi non siamo più giudicati dal sistema del consigli degli ordini regionali, ma da un Consiglio di disciplina nazionale».
La vulgata dell’esecutivo (e non solo) è quella che il “Sistema” di Palamara sia sempre presente. E che la degenerazione correntizia copra di lacrime le cose, gli uomini e i tribunali. Concorda? 
«La degenerazione correntizia c’è, è evidente. La magistratura italiana ha compiuto azioni eroiche contro la mafia, il terrorismo, la corruzione. Ma –e lo si è visto soprattutto dal caso Amara in poi- si sono formati sempre più gruppi di magistrati, di pm, che hanno voluto interagire e rapportarsi sempre più con soggetti politici, e questo non è bene».
La riforma, alla fine passerà? 
«Ora, credo che la riforma passi, in questo senso dalla revisione della Costituzione con doppia lettura e referendum. Eppure, insisto io, l’art 107 si potrebbe non essere toccato utilizzando un doppio binario: uno per i giudici, l’altro per magistrati dell’accusa, due mestieri diversi. Non c’è bisogno di un apparato aulico come il Csm per i pubblici ministeri...».

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