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Giustizia, ciò che Falcone, Di Pietro e gli italiani chiedevano

Francesco Damato
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Temo, per loro, che sia non debole ma debolissima la memoria dei magistrati e dei loro sindacalisti che stanno pensando allo sciopero contro la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che è contemplata, con altro ancora, nella riforma costituzionale della giustizia appena varata dal governo all’unanimità, a dispetto dei retroscena che attribuivano divisioni e resistenze persino alla presidente del Consiglio. La quale se ne è invece assunta la titolarità strappandola ai morti evocati con i nomi di Silvio Berlusconi, Bettino Craxi e Licio Gelli, in ordine rigorosamente alfabetico.

È una memoria debolissima per i più anziani o meno giovani. E ignoranza, nel senso di non conoscenza, e mancato studio, per i più giovani. Che non erano neppure nati nell’autunno del 1987, quando l’8 e il 9 novembre gli italiani parteciparono con un’affluenza di ben il 65,11 per cento al referendum contro le norme che ancora più di adesso proteggevano i magistrati, sino ad esentarli, dalla cosiddetta responsabilità civile. Cioè dall’inconveniente, chiamiamolo così, di rispondere dei danni procurati dai loro errori, come capita ai medici, agli infermieri, agli ingegneri, ai geometri, a noi giornalisti e via via salendo o scendendo, come preferite. Un referendum tanto temuto da “lor signori” in toga, e dai partiti o correnti che o li amavano o li temevano sino a lasciarsene intimidire, che per evitarlo- insieme ad altri di uno stesso turno - nella primavera di quell’anno si era preferito impedirli con le elezioni anticipate. Ma la ciambella non riuscì col buco perché il rinvio del referendum, per sopraggiunte complicazioni politiche, si ridusse a qualche mese, e non all’anno e forse ancora più su cui avevano contato i più contrari.

 

 

Ebbene, da quella prova referendaria che misurava nei fatti la popolarità dei magistrati dopo lo scempio del caso di Enzo Tortora, destinato a morire dopo sei mesi, il sì all’abrogazione delle norme di totale protezione dei magistrati e quindi il no alla prosecuzione del loro scudo totale - fu pari all’80,21 per cento dei voti.

Da allora, a parte l’impennata di Tangentopoli, fra il 1992 e il 1993, quando le folle in maglietta chiedevano ai magistrati di farle “sognare” con le retate dei politici e affini indagati per corruzione, e qualche volta anche suicidi per disperazione scambiata per vergogna dagli inquirenti più feroci, l’indice di gradimento della magistratura è andato sempre più calando.

IL COLPO DI SCENA DI TONINO - Non credo che quest’indice sia destinato a risalire con lo sciopero in cantiere contro la separazione delle carriere indicata dall’Associazione nazionale dei magistrati come una sciagura. E condivisa invece - pensate un po’, vendetta della storia o della cronaca, come preferite - dal più famoso dei pubblici ministeri che una trentina d’anni fa faceva sognare le piazze giacobine d’Italia: Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici. Che la pensa, sulle carriere giudiziarie, come la pensava già allora Giovanni Falcone, anche se di recente Armando Spataro ha voluto darne un’altra lettura diretta o deduttiva che ha però l’insuperabile inconveniente di non poter essere confermata dall’interessato, ucciso con la moglie e quasi tutta la scorta nella strage mafiosa a Capaci il 23 maggio 1992.

 

 

Al calo di gradimento della magistratura non ha contribuito soltanto il mito ormai cessato o smentito dell’ondata giustizialista di trent’anni fa, che indusse persino l’ancor vivo Francesco Saverio Borrelli, il superiore di Di Pietro, a chiedersi se fosse valsa la pena fare tutto ciò che aveva voluto, vista la perdurante o addirittura cresciuta corruzione. Vi ha contribuito la stessa magistratura con un’amministrazione della giustizia, e di se stessa, che è sotto gli occhi di tutti. Una magistratura che non vuole sentirsi definire “casta” ma è oggettivamente arroccata come in un fortino in quello che non io - povero, vecchio tapino o topaccio del giornalismo - ma un capo dello Stato e presidente del Consiglio Superiore come Giorgio Napolitano definì un «forte squilibrio» nei rapporti fra giustizia e politica intervenuto fra il 1992 e il 1993.

Napolitano scrisse così in una lettera per niente privata, diffusa pubblicamente, alla vedova di Bettino Craxi nel decimo anniversario della morte del marito in terra tunisina, colpito da una «durezza senza uguali» nella pratica generalizzata del finanziamento illegale dei partiti e dintorni.

Quella lettera, perla sua spietata analisi, non è stata perdonata dal giacobinismo italiano a Napolitano neppure da morto. Ma essa segnò al Quirinale la fine, o quanto meno l’interruzione, si vedrà, di una stagione infausta avviata da Oscar Luigi Scalfaro anche con quella presenza ad un congresso di magistrati dove promise che mai- dico maiavrebbe firmato una legge sulla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Se ne parlava già allora.

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