La filosofia del diritto, almeno ai miei tempi universitari, era una materia da primo annodi giurisprudenza, il cui esame gli studenti affrontavano fra i primi trovando la materia forse più empatica che facile. Eppure di filosofia vedo ben poco, e quel poco alquanto sottosopra, nella campagna referendaria ormai in corso sulla riforma della giustizia - o della magistratura, come preferisce chiamarla con la sua esperienza Antonio Di Pietro - appena approvata dal Parlamento.
Il no gridato e reclamato dall’Associazione nazionale dei magistrati e dalle sue appendici politiche è spiegato addirittura enfatizzando la pericolosità dei pubblici ministeri con i quali i giudici vorrebbero continuare ad avere una carriera unica. La separazione renderebbe i magistrati d’accusa ancora più forti di adesso. E il governo - con un altro sospetto o ragionamento cervellotico - ne vorrebbe il rafforzamento, dietro un apparente ridimensionamento rispetto al famoso “giudice terzo e imparziale” introdotto 26 anni fa nell’articolo 111 della Costituzione, per poi impadronirsene e metterlo al proprio servizio con un’altra riforma, evidentemente. E così l’intero sistema giudiziario finirebbe alle dipendenze della politica dopo averla sovrastata per una trentina d’anni. Da quando cioè, per pubblica e insospettabile ammissione o denuncia dell’allora presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, Giorgio Napolitano scrivendone alla vedova di Bettino Craxi, i rapporti fra politica e giustizia, o magistratura, concepiti dai costituenti e rimasti scritti sulla Carta, furono “bruscamente” cambiati. E ciò all’ombra delle inchieste e dei processi sul finanziamento tanto illegale quanto diffuso dei partiti.
Mi chiedo di fronte al cervellotico ragionamento dei magistrati associati, e dei loro corifei politici, sino a che punto costoro potranno e vorranno abusare dei loro interlocutori anche a livello referendario, cioè elettorale, potendosi e dovendosi risolvere un referendum, specie quello cosiddetto confermativo, e non abrogativo, contando i sì e i no, senza condizionamenti come una certa partecipazione o affluenza alle urne. Neanche i sofisti dell’antica Grecia, maestri di retorica e dialettica, erano arrivati a tanto.
Questa di considerare gli elettori così sprovveduti, così fessi, diciamolo pure, è la cosa che più colpisce dell’approccio della magistratura associata e politicizzante, oltre che politicizzata, al referendum sulla riforma costituzionale della giustizia. La cui campagna impegnerà anche i giornali sino alla primavera prossima, in una delle domeniche possibili fra metà marzo e metà giugno.
Più a marzo che a giugno, ha per fortuna anticipato il ministro Carlo Nordio senza incorrere fortunatamente, almeno sinora, a qualche nuovo attacco o esposto giudiziario, addirittura, di un avvocato fantasioso premiato da qualche procuratore della Repubblica generoso, a dir poco.
La politica, come la rivoluzione, non è un pranzo di gala. D’accordo, pur senza spingerci alle immagini fognarie o mattatoriali usate una volta, nella cosiddetta prima Repubblica, dal socialista Rino Formica, che a quasi 100 anni - 98, di preciso- ancora interviene nelle polemiche scrivendone in particolare sul Domani. Ma anche in una simile visione cruenta, si dovrebbe avvertire un limite di buon senso e di buon gusto. È troppo chiederlo anche ai magistrati a corrente unica o separata, che rimanga o diventi?




