I falsi e le manipolazioni cui sono ricorsi i sostenitori del No referendario alla riforma della giustizia approvata dalle Camere derivano dal Pantheon minore di cui in realtà essi dispongono nella campagna avviata con largo anticipo rispetto ai tempi di legge. Se togliete dal Pantheon referendario figure eccellenti ed eroiche come Falcone e Borsellino, ai vari Gratteri, Bruti Liberati, Caselli e dirigenti attivi dell’Anm rimane solo il ricordo o il fantasma dello scomparso presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Non il massimo per essere stato fra i capi dello Stato succedutisi al Quirinale, e alla presidenza del Csm, fra i meno popolari per la torre d’avorio in cui aveva finito per chiudersi nell’esercizio delle sue funzioni. Una torre che aveva aperto, proprio avviando il suo mandato presidenziale con la gestione della prima crisi di governo capitatagli in sorte, all’allora capo della Procura della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli.
Il quale, figlio peraltro di un amico e collega di Scalfaro in magistratura, salì sul Colle per le consultazioni pur non essendo un segretario di partito, capogruppo parlamentare e affini. Era solo il più alto in grado della squadra giudiziaria delle cosiddette mani pulite, impegnata contro il finanziamento tanto illegale quanto generalizzato della politica e sulla corruzione che poteva esserne scaturita: molto meno delle accuse, visto l’esito dei processi che ne sarebbero derivati. Per non parlare di quelli ai quali neppure si arrivò pur dopo il ricorso a clamorosi arresti “cautelari”, eseguiti sotto i riflettori di truppe televisive allertate in tempo. Storie, allora, di ordinaria macelleria mediatica al cui solo ricordo mi chiedo ancora perché e come non fosse stata impedita da chi poteva e doveva. Quando qualcuno tentò di intervenire, come la buonanima dell’allora ministro della Giustizia Filippo Mancuso, alto magistrato ormai in pensione, disponendo un’ispezione ministeriale presso la Procura milanese e uffici limitrofi, Scalfaro fu tra i primi a dissentire, non lasciando solo Borrelli che protestava e annunciava un sostanziale boicottaggio di quella che lui considerava una incursione. Le polemiche che ne derivarono sfociarono al Senato in una mozione di sfiducia personale contro il guardasigilli, scaricato anche dal presidente del Consiglio Lamberto Dini, e alla fine rimosso col beneplacito della Corte Costituzionale cui Mancuso aveva fatto inutilmente ricorso.
Ebbene, è stato proprio Dini a rivelare in questi giorni, in una intervista a favore del Sì alla riforma della giustizia sottoposta a procedura referendaria, di avere condiviso - evidentemente a prescindere dal caso increscioso di Mancuso, che del resto non gli aveva fatto sconti nelle polemiche - la prospettiva di una separazione delle carriere fra giudici e pm per coerenza con il processo penale di rito cosiddetto accusatorio introdotto negli anni passati. Egli arrivò a parlarne con Scalfaro, che gli disse di non occuparsene essendo materia troppo delicata per un governo sostanzialmente tecnico com’era quello che gli aveva permesso di fare, dopo la prima caduta di Berlusconi, per ritardare le elezioni anticipate che il Cav reclamava entro qualche mese. E arrivarono invece dopo più di un anno, quando le opposizioni si sentirono abbastanza preparate all’ombra dell’Ulivo - ricordate? - e dell’investitura di Romano Prodi a candidato a Palazzo Chigi. Che infatti vinse, anche se governò per meno di due anni. E dopo altri 10 sarebbe poi tornato, sempre per beve tempo. Il coperchio sulla pentola del no opposto a Dini tentato dalla separazione delle carriere Scalfaro lo mise promettendo pubblicamente ai magistrati, ospite di un loro congresso, che mai, dico mai, avrebbe controfirmato e promulgato una legge sulla separazione delle loro carriere. Sono trascorsi trent’anni. Che sono tanti, anche troppi, ma forse passati non inutilmente se in primavera prevarrà il sì referendario




