Maurzio Belpietro: Cari giovani cercate il lavoro dove c'è
Un giovane lettore mi scrive contestando l'editoriale di giovedì in cui mi occupavo di giovani, lavoro e articolo 18. Dario Bonfanti non ha digerito le critiche ai ragazzi che rifiutano l'assunzione sostenendo che la retribuzione è troppo bassa o l'orario troppo lungo. «Lei li definisce sfaticati e interessati solo al guadagno», lamenta in una lunga mail che riassumo per sommi capi, «ma mi sembra che lei abbia le idee poco chiare su come funziona il mondo del lavoro in Italia». Il lettore racconta la sua esperienza da disoccupato: laurea magistrale in economia, conseguita senza un giorno da fuori corso, buone conoscenze della lingua inglese e dei sistemi informatici, e però nessuno che sia disposto ad assumerlo. Bonfanti spiega che dal dicembre dello scorso anno ha sostenuto una ventina di colloqui, ma non avuto nessuna seria proposta di lavoro. Al massimo qualche offerta di stage, con compensi variabili fra 300 e 500 euro mensili per quaranta ore di lavoro, senza però alcuna garanzia di essere poi inseriti in azienda. «Come fa dunque a scrivere un articolo in cui bolla i giovani come una generazione che non vuole lavorare?» mi rimprovera il giovane lettore, «probabilmente lei ha avuto la fortuna di iniziare la sua attività professionale in periodi molto più vantaggiosi, in cui il lavoro c'era e nessuno, ripeto nessuno, lavorava senza praticamente essere pagato. Oggi purtroppo le cose sono cambiate (in peggio, naturalmente) e questo lei lo dovrebbe ben sapere». La lettera si conclude facendo un accenno al mio stipendio pagato dai contribuenti e invitandomi a informarmi meglio prima di scrivere, senza trarre giudizi che rischiano di offendere la dignità delle persone. I lettori, e anche Dario Bonfanti, mi scuseranno se comincio dal fondo e dalla mia trascurabile esperienza, ma essendo stato tirato in ballo una spiegazione la devo. Ho cominciato questo mestiere quasi quarant'anni fa, e per più di un anno il mio stipendio è consistito nella mia firma sul giornale. Successivamente l'amministrazione del giornale per cui lavoravo mi riconobbe un rimborso spese, che per lo meno mi sgravava dell'onere di finanziare il mio lavoro. La prima vera busta paga arrivò dopo cinque anni di quello che una volta nelle redazioni si chiamava periodo da abusivo e che in pratica oggi potremmo tradurre come lavoro nero. Preciso, a scanso di equivoci, che non sono figlio di un milionario ma di un semplice impiegato, e per aver fatto la gavetta non mi considero né un'eccezione né un martire. Credo che la maggior parte dei giornalisti della mia età sia entrata in redazione così, cioè dalla porta di servizio. Dunque, caro Dario, ogni professione ha i suoi ostacoli e ogni stagione ha i suoi sfruttati. Ma lasciando perdere la mia esperienza - che non è certo importante - veniamo al sodo, e cioè alla mancanza di lavoro. Io capisco la frustrazione del giovane lettore, il quale dopo anni di studio non trova il lavoro, ma questo è il risultato di un gran equivoco - o, per essere più precisi, di un grande imbroglio. Dagli anni Sessanta in poi si è fatto credere ai giovani (e alle famiglie che li sostengono e li finanziano) che bastasse iscriversi a una scuola o a una università per aver assicurato il posto di lavoro. Dalla grande impostura della Costituzione, che si fonda sul lavoro, si è passati alla grande bugia della laurea che assicura uno stipendio e una elevazione sociale. Ma non è così, perché il lavoro si basa sulle regole dell'economia, non sulle norme della Costituzione e nemmeno sul diploma. Esiste una domanda e un'offerta, e se la scuola e l'università non si sintonizzano sulla domanda e l'offerta del mondo del lavoro, ecco che la laurea e il diploma assicurano solo un futuro da disoccupati. Mi spiego meglio: che senso ha iscriversi oggi a corsi di comunicazione o alla facoltà di scienze politiche? In un momento in cui l'economia arranca e l'editoria sta peggio, che cosa ci sarà da comunicare? E in un'Italia come quella attuale ci sarà bisogno di così tanti scienziati politici, oppure saranno più necessari gli ingegneri? Voglio dire: gli studi non possono essere disgiunti da quel che serve. Se c'è bisogno di un esperto informatico, di uno che sappia smanettare e capisca il linguaggio del web, una laurea in lettere antiche probabilmente vale zero. Se occorre un chimico molecolare, un laureato in giurisprudenza o in economia ha la stessa preparazione e la stessa probabilità di essere assunto di uno che ha raggiunto a stento la terza media. Sarà sgradevole da sentire, ma è così. Nell'articolo contestato, io mi occupavo proprio del nesso fra mondo reale e attese dei giovani. Oggi in molti, più che un lavoro, cercano un impiego oppure un ingaggio. Si va da chi sogna di sedersi dietro una scrivania a chi immagina un futuro sotto le luci della ribalta. In realtà il lavoro spesso è altrove. A Bari - cioè in una regione dove l'occupazione non abbonda - c'è un istituto alberghiero da cui il 98 per cento dei diplomati esce con il posto già assicurato. Cosa intendo? Che l'occupazione c'è ma in settori diversi ma quelli che si vorrebbero, e spesso ad essere assunti sono gli extracomunitari, i quali accettano di fare i pizzaioli, i fornai o i camerieri, cioè lavori che gli italiani rifiutano. Nell'articolo citavo un barbiere che non riusciva a trovare un giovane assistente, pur offrendo uno stipendio regolare e di tutto rispetto. Certo, Dario penserà che lui non ha studiato dieci anni per fare il parrucchiere. Ma purtroppo qui torniamo al grande equivoco, ovvero far credere che tutti potessero fare i dottori, i commercialisti, gli avvocati o i giornalisti. Se il mercato non assorbe migliaia di sociologi o dottori in comunicazione, forse dovremmo spiegare ai giovani che certe lauree più che il posto di lavoro assicureranno loro la disoccupazione. Forse le mie argomentazioni appariranno talmente franche da apparire brutali e me ne dispiaccio. Ma al punto in cui siamo, cioè con una disoccupazione al 13 per cento e il 43 per cento dei giovani senza un lavoro, credo sia ora di parlare chiaro, o no? Detto ciò, credo che molti giovani, invece di guardare in faccia la realtà e rimboccarsi le maniche, preferiscano illudersi e inseguire i sogni. Un po' perché quando si è giovani si hanno molte aspettative e si è portati a sognare. E un po' perché, fino a quando c'è qualcuno che paga, è più comodo illudersi. Mi scuso infine per l'ennesima citazione personale, ma vorrei rassicurare il giovane Bonfanti: il mio stipendio non è mai costato un euro al contribuente, dato che, da quando ne sono direttore, Libero non ha incassato soldi pubblici, ma semmai ne ha versati. di Maurizio Belpietro [email protected] @BelpietroTweet