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Giampaolo Pansa: "Vi racconto la mia Casale uccisa al rallentatore"

Ignazio Stagno
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L'Eternit una fabbrica della morte? Per chi ha vissuto e vive lo strazio dei poveri cristiani uccisi dall'amianto, è molto, molto di più. E'un inferno che dura da tantissimi anni. Dapprima senza che nessuno se ne accorgesse, poi nell'impotenza di fermare in qualche modo un demonio che finora è stato capace di accoppare duemila persone o giù di lì. Una strage da film catastrofico in una città che non ha mai superato i quaranta mila abitanti. Ma soltanto chi è nato a Casale Monferrato, la sede centrale dell'Eternit, può sentire dentro di sé tutto l'orrore di questo assassinio al rallentatore, impossibile da contrastare. Nel passaggio fra l'Ottocento e il Novecento, i poveri del Monferrato avevano tre possibilità. La prima era di lavorare nelle cave di marna. Lo facevano in condizioni bestiali, consumando la vita sottoterra, senza protezione, rischiando di morire bruciati dallo scoppio del grisou o soffocati sotto una delle tante gallerie franate. Le paghe erano misere e la fatica immensa. I cavatori rientravano a casa di notte, nei paesi del Monferrato, disfatti, terrei, senza altro orizzonte che scendere di nuovo nel buio dopo poche ore. "I sepolti vivi" li aveva chiamati nel 1913 La Fiaccola, il settimanale socialista della città. La seconda occasione di lavoro arrivò dallo sfruttamento delle ottime marne calcaree, portate alla luce dai cavatori. Era la materia prima della calce e del cemento. E regalò alla città il boom dei cementifici. All'inizio del 1900 queste fabbriche erano più di cento. Vista dall'alto della salita di Sant'Anna, un eremo frequentato da morosi in camporella e da amanti clandestini, Casale offriva un profilo infernale. Quello di una sterminata batteria di ciminiere, affilate come missili. Cento bocche di fuoco sparavano un fumo sempre più denso e acre. I tetti delle case diventavano bianchi per la polvere. Nella calura estiva l'aria si faceva irrespirabile. E gli anziani stavano sempre sul punto di morire asfissiati. Nel 1906 emerse una terza possibilità per i poveri della mia città. Un pugno di imprenditori genovesi, "i maledetti" come ringhiava mia nonna Caterina, impiantarono a Casale una fabbrica all'avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e di amianto, grazie al brevetto di un austriaco. L'invenzione venne chiamata Eternit poiché garantiva una durata eterna del prodotto. Non era una bufala dal momento che siamo ancora circondati da quella robaccia vecchia di un secolo. Dalle tegole si passò alle lastre ondulate. Poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell'azienda fu trionfale. L'Eternit arrivò ad occupare 2.400 persone, ma quelle che ci sono passate pare siano state quasi cinquemila. Fu la nostra Fiat. Lavorarci era un privilegio. Anche perché le paghe erano un tantino più alte che in altre aziende. I padri chiedevano alla figlie in età da marito: "Dove lavora questo tuo moroso?". "All'Eternit" rispondeva la ragazza, orgogliosa. "Allora sposalo" concludeva il papà. E spiegava alla moglie: "Il certificato di matrimonio avrà il valore di una polizza a vita". Andò a lavorare all'Eternit anche il fratello più giovane di mio padre, l'ultimo di sei bambini orfani. Francesco Pansa, classe 1901, a quindici anni diventò operaio nella fabbrica dell'amianto. Poi divenne un addetto al montaggio dei grandi tubi, soprattutto in Bassa Italia. Era un ragazzo attivo ed estroso. Ad un certo punto ne ebbe abbastanza dell'Eternit ed emigrò in Argentina. Di lì scriveva a sua madre Caterina che le donne di Buenos Aires erano tutte belle e compiacenti. Però Caterina era analfabeta e doveva farsi leggere le lettere da una delle figlie che saltava sempre le righe dedicate agli amorazzi. Dopo due anni di Argentina, Francesco Pansa ritornò a Casale, sempre nella fabbrica della morte. Da quell'inferno lo tirò fuori la fidanzata, Giuseppina detta Pinota. Era la dodicesima figlia di un pescatore del Po. E aveva una sola dote: la licenza per aprire un'osteria. Nel frattempo Francesco era diventato comunista, il capo della cellula di Porta Po. Quando morì non risulta che sia stato ucciso dall'amianto. Ma il veleno nascosto nell'Eternit seguitava a infettare la città. Da ragazzino me li ricordo anch'io i camion gialli carichi dei tubi e delle coperture ondulate. Li trasportavano dallo stabilimento alla stazione ferroviaria. Viaggiavano attraverso la città senza nessuna protezione, neppure un telone che coprisse il carico. Soprattutto nei mesi caldi gli autocarri procedevano dentro una nube di polvere. Era la schifezza ambulante che tutti respiravamo, senza renderci conto del rischio che si correva. Andò avanti così per molti anni. Passavano i regimi politici. Dal socialismo municipale al fascismo, poi alla Repubblica sociale, quindi si tornava alla democrazia, ossia alla Dc di De Gasperi e al Pci di Togliatti. Soltanto l'Eternit sopravviveva, potente e impenitente. Era la padrona della città. Un esempio del capitalismo senza regole che diventa dittatura. Il mostro chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. Si estendeva su 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con quel prodotto assassino. Era una bomba nucleare sul fianco destro del Po. In seguito si scoprì che la lavorazione dell'amianto aveva creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore innaturale, bianco brillante. Un grande velo da sposa che nascondeva un numero spaventoso di cadaveri. Ho detto che l'Eternit ha ammazzato a Casale all'incirca duemila persone. Di queste, duecentocinquanta o trecento erano uomini e donne che non avevano mai messo piede nella fabbrica. Spesso abitavano in quartieri lontani. E facevano altri lavori. Si ritenevano al sicuro, ma si sbagliavano. Il mesotelioma ha ucciso pure chi aveva lasciato la città da giovane, senza più ritornarci. Tra questi c'è anche un giornalista che voglio ricordare: Marco Giorcelli, il direttore del bisettimanale cittadino Il Monferrato. Era l'opposto del capociurma impassibile e cinico. Un uomo cortese, riservato, ma tenace. Sempre in prima fila nella battaglia contro l'Eternit. Aveva pubblicato anche l'elenco di tutte le vittime dell'Eternit, una sterminata Spoon River dell'amianto. In quella lista mancava un nome: il suo. Lui morì ucciso a 51 anni dal mesotelioma, dopo una lunga e crudele agonia vissuta con grande dignità. Il ricordo di Marco mi obbliga a un pensiero sul mio conto. Sono nato a Casale nel 1935 e ho vissuto lì sino al 1960, quando mi sono trasferito a Torino per lavorare alla Stampa. Dunque ho respirato amianto per venticinque anni. Grazie al Padreterno sono ancora qui a scrivere. Sento dire che l'effetto Eternit può presentarsi anche dopo tantissimo tempo. La provano i miei concittadini che seguitano a morire. Certo, sono un sopravvissuto. Ma per quanto tempo ancora? di Giampaolo Pansa

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