Socci: ecco il Dante che Benigni non ci ha mai raccontato
In altri tempi a celebrare solennemente in Senato, alla presenza del Capo dello Stato, il 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, sarebbero state chiamate personalità del calibro di Francesco De Sanctis o Benedetto Croce. Ma ogni epoca ha i vati che merita. Così, pare per volontà del presidente Grasso, il Senato nei giorni scorsi ha fatto tenere la suddetta prolusione al comico di Vergaio, Roberto Benigni. È lui il nuovo vate della nazione? Non è facile capire com'è che - per gli attuali vertici dello Stato - un gigante del pensiero e della storia nazionale come Dante debba essere illustrato in Senato da un attore comico. Perché Benigni questo è: un ottimo comico, divertente, ma pur sempre un comico che va benissimo per la tv e per le piazze. Ma non risulta che abbia titoli o meriti filosofici, letterari o storici per tenere la prolusione in Senato. Del «Benigni poeta» del resto ricordo solo l'Inno del corpo sciolto sulle cui strofe è meglio sorvolare. Evidentemente il presidente Grasso al nome di Dante riesce ad associare solo quello di Benigni, segno di una «cultura» non proprio vastissima e perlopiù televisiva. In fondo avrebbe potuto reperire anche sui giornali (non dico sui libri) nomi di intellettuali contemporanei - da Ernesto Galli della Loggia a Umberto Eco, al cardinale Giacomo Biffi - a cui affidare una riflessione che avesse un'autorevolezza adeguata all'aula del Senato. Ma i vertici dello Stato ritengono che Benigni sia l'oratore più adatto per gli attuali parlamentari. Qualcuno ha notato che di questo passo potrebbero chiamare in Senato a celebrare il Petrarca un Alvaro Vitali e Checco Zalone per il Manzoni. Forse il paragone non è giusto. Benigni ha fatto obiettivamente una buona opera di divulgazione popolare con le sue letture dantesche. Sono molto divertenti gli spettacoli che ha dedicato alla Divina Commedia. Ma sono appunto spettacoli di un ottimo attore comico. Altra cosa dovrebbe essere una solenne riflessione in Senato sul 750° anniversario della nascita di un poeta così grande e così importante per il nostro Paese da aver letteralmente coniato la nostra lingua italiana (perché - se non lo si sa - la Divina Commedia fu scelta come il canone della nostra lingua). Possibile che delle nostre istituzioni e della nostra identità culturale millenaria si abbia una considerazione che non va oltre gli esilaranti spettacoli di un attor comico? Possibile che nessuno abbia sentito, nell'occasione, la necessità di una riflessione seria sulla nostra identità nazionale? Sarebbe questo il «senso delle istituzioni» che viene sempre sbandierato da lorsignori? Ed è questa la consapevolezza culturale che le nostre classi dirigenti hanno della storia e del destino di questo Paese? Da Benigni, in Senato, per questa nostra Italia del cazzeggio, è arrivata la solita raffica di battute. Simpatica quella secondo cui PD significherebbe Partito di Dante. Lui l'ha detta ridendo, ma si sa che Arlecchino si confessa burlando e - in fin dei conti - l'operazione fatta in questi anni da Benigni è stata proprio questa: trasformare Dante in un autore «politically correct». Infatti si è verificato questo singolare e buffo fenomeno: negli ultimi quindici anni Dante - o meglio il Dante benignesco - è entrato nel Pantheon del progressista italico. Curioso no? Con il '68 la Divina Commedia fu di fatto spazzata via dalla scuola, Dante era considerato un barboso bigotto reazionario. Poi Benigni, per la sua Italia progressista, l'ha tirato fuori dal lazzeretto in cui era stato relegato. Ma non che oggi Dante venga letto o davvero riproposto a scuola e studiato e amato. No. Quanti fra coloro che si dicono appassionati dantisti sulla scorta di Benigni hanno mai sentito parlare o letto Auerbach o Contini o Singleton? Ancor più si tengono a distanza dalla dottrina cattolica di Tommaso d'Aquino e Bernardo di Chiaravalle che struttura tutta la Commedia. Figuriamoci. Il Dante dell'intellettuale collettivo e della Sinistra benpensante in realtà è Benigni, non il poeta della Divina Commedia che resta - ai loro occhi - un indigeribile trombone cattolico-reazionario. Infatti Benigni, per renderlo digeribile al delicato stomaco della sinistra salottiera, ha «appannato» il vero Dante, quello «politicamente scorretto», scomodo e urticante. Oggi il vero Dante, redivivo, sarebbe letteralmente schifato e considerato quasi un appestato, sia nelle curie ecclesiastiche che in quelle laiche, come del resto gli accadde in vita. Infatti visse ramingo e braccato. Fu considerato un fallito come politico e pure come intellettuale se - lui vivente (già circolavano l'Inferno e il Purgatorio) - fu data l'incoronazione di poeta (che era un po' il Nobel di allora) a un tal Albertino Mussato, per aver scritto una tragedia, l'Ecerinis, che nessuno ricorda più. Dante fu esiliato da Firenze e morì in contumacia (come Craxi!) con l'accusa di «barattiere», cioè tangentista. Dunque o Dante era un ladro (perciò sarebbe considerato col disprezzo riservato ai politici corrotti) o - ed è certo - non lo era e allora fu vittima di una giustizia di parte (politicizzata), davanti alla quale - fra l'altro - non volle comparire disprezzandola (così guadagnandosi la condanna al rogo). Del resto ha lasciato nella Commedia parole di fuoco contro chi lo condannò. Ed insieme il suo alto lamento sull'Italia che vede come un «bordello» e come una nave senza timoniere, sbattuta qua e là dalle tempeste e rovinata da classi dirigenti miserabili. Ma il Poema sacro - che non ha eguali nella letteratura mondiale (in questo Benigni ha ragione: «non è l'apice della letteratura italiana, è l'apice di tutte le letterature, non c'è niente di più alto») - contiene pure un'impressionante e «spudorata» serie di violazioni del politically correct, tale da fare impallidire l'odierna mentalità dominante. Tempo fa un'associazione internazionale - riferiva il Corriere della sera - ne chiese la cancellazione dai programmi scolastici o la «correzione» dei suoi presunti contenuti «islamofobici, razzisti ed omofobici». In realtà non c'è nessun razzismo, ma è vero che il poema dantesco può sembrare urticante a due «partiti» oggi agguerritissimi, il mondo musulmano e il movimento gay, in riferimento a coloro che il poeta pone all'Inferno. Del resto, da «cattolico integralista» come oggi lo si definirebbe (ma in realtà è solo cattolico), mette all'inferno pure gli eretici, i bestemmiatori, gli adulatori e (pur essendo lui alquanto sensibile alle grazie femminili) anche i lussuriosi. Infine, come se non bastasse, condanna con parole di fuoco diversi Papi del suo tempo, mettendoli all'inferno e sparando a zero sulla corte pontificia, pur professandosi cattolicissimo. Anzi, proprio perché cattolico. Cosa che oggi, in tempo di bigottismo imperante, sarebbe ritenuta inammissibile: ma lui era cattolico, non clericale, né papolatra, mentre oggi tutti sono clericali e papolatri, senza però professare la fede cattolica. Il cardinale Giacomo Biffi ha scritto: «La cristianità ha un esempio ammirevole del connaturale connubio tra fede e libertà in Dante Alighieri. Proprio la sua indubitabile adesione alla verità cattolica consente e illumina la sua perfetta autonomia di giudizio, svincolata da ogni timore o condizionamento umano. Dante non teme di criticare l'operato dei Papi e le loro scelte operative, fino a collocarne diversi nel profondo dell'inferno. Ma in lui non viene mai meno e mai minimamente s'attenua “la reverenza delle somme chiavi” (Inf. XIX, 101). Quando si tratta di esprimere riserve o biasimi che egli ritiene dovuti, non ci sono sconti né per i laici, né per gli ecclesiastici, né per i monarchi, né per i semplici cittadini... tenuti tutti, senza eccezioni, ad attenersi alla legge evangelica». Dante non fu solo il più grande dei poeti, ma - essendo davvero cristiano - fu un uomo libero. E per questo scomodo. di Antonio Socci