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Alberto Genovese, la ricostruzione di Filippo Facci: ecco perché la sua vittima ha cambiato avvocati e strategia

Filippo Facci
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A Milano, nell'attico di Piazza Beltrade, sono quasi le sei del mattino di domenica 11 ottobre, e c'è una modella diciottenne reduce da venti ore di violenze, torture e sevizie praticate con modi e strumenti che la legge e la pietà impediscono di dettagliare. Alberto Maria Genovese, «un ultra milionario che doveva essere servito e riverito da tutti» (definizione del suo amico Danny Leali) l'ha straziata con insistenza ossessiva ma anche con metodo sperimentato: durante la festa, dopo che lei si era già drogata di suo (cocaina, ketamina e cosiddetta coca rosa a disposizione di tutti) lui l'ha ingabbiata con Ghb, un farmaco che fisicamente l'ha resa una bambola incosciente che non avrà memoria di quel che ha subito; poi l'ha mantenuta assente per ore infinite con altri fiumi di ketamina (spacciata per cocaina) che è un anestetico per animali che le ha indotto a forza coi metodi più osceni, in modo da lasciarla inanime e non farla gridare per il dolore inflitto ininterrottamente. Questa ragazza si chiama A. e di quei momenti ha solo dei flash, ma ci sono 19 telecamere interne che hanno ripreso le 20 ore di calvario: quindi gli attrezzi di tortura, le fotografie in pose oscene, le manette ai polsi e alle caviglie, la cravatta al collo, e un senso di totale smarrimento man mano che lei riprendeva senno.

Ore 18.00.
Genovese la trascina per i capelli sino alla camera degli ospiti. Entrano. Lui le porta altra droga su un piatto. Lei accenna un rifiuto mentre la realtà torna sgradevolmente vivida e percepisce che le è stato fatto qualcosa di orribile. Lui, non inquadrato, le mette 3500 euro nella borsa, come un compenso, però le chiede un documento per sapere se è maggiorenne. Litigano surrealmente, lei comunque non ha documenti, ha solo un codice fiscale. Lui allora prende i 3500 euro e li mette in una pentola, poi li brucia con un cannello per dolci, bevendo un vino appena stappato. Lei più tardi riesce a recuperare il suo telefono e parla con qualcuno, probabilmente l'amica M., a cui messaggia di trovarsi in una situazione «pericolosissima»: se non si fosse rifatta viva, scrive, M. doveva chiamare la polizia.

Chiede dei vestiti, non può uscire scalza, Genovese rifiuta e la spinge ancora verso la stanza padronale, mentre lei piange, dice che sta male. Vorrebbe darle altra ketamina. Lei chiede pietà. Si vede lei che cerca di recuperare qualche abito, che chiede a Genovese se ha visto la sua borsa, vuole sapere dov' è l'uscita: «Stai là. Stai là. Stai là»; «mi apri?»; «stai là»; «la porta?»; «stai là»; «la porta, devo uscire, devo uscire, no, devo uscire subito, in questo momento, chiamo la polizia Mi fai, per favore, mi fai, per favore, uscire?»; «Questa è la tua stanza. La tua stanza. La tua stanza». A. manda un altro messaggio a M. alle 21.25. Poco più tardi trova l'uscita, sposta un pesante tendaggio e giunge all'ascensore dove schiaccia a caso tutti i tasti. Riesce a scendere, lui non la segue. Sono le 21.45. Ad attenderla c'è M. e l'amico D., altro personaggetto di una Milano effimera. A. indossa vestiti non suoi e ha una scarpa sola. L'ultima immagine di Genovese è lui che le lancia giù l'altra scarpa e una banconota da cento euro. L'amico ferma una volante della Polizia 

Ore 23.00.
Viene ricoverata alla clinica Mangiagalli, dove resterà per tre giorni. La documentazione medica, non riportabile, elenca danni in 18 zone del corpo. Ci sono dettagli che raccontano la storia da soli. Il laboratorio di analisi del Politecnico confermerà l'assunzione di tutte le droghe citate, con in più dei cannabinoidi (hashish) e anfetamina. La modella ha già detto di essersi drogata alla festa, dapprima volontariamente, e di farlo quando capita. Una delle domande, oggi, anche guardando i suoi profili social, è se abbia mai smesso di farlo.

12 ottobre.
La Polizia bussa a casa di Genovese per un primo sopralluogo. Genovese, detto in gergo, sclèra subito. Chiama i suoi avvocati, prende tempo, alle 8.59 telefona al gestore dei server delle telecamere interne e gli dice di cancellare le immagini «perché aveva fatto una festa ed avevano esagerato». Il gestore contatta un tecnico e gli dice di procedere. Alle 9.29 Genovese richiama, ansioso, perentorio: «Pialla quelle registrazioni, adesso la camera padronale, entrambe le telecamere», il cancellato dev' essere «non recuperabile». Intanto sono arrivati gli avvocati e la polizia scientifica, che ha visto le telecamere. Altro messaggio di Genovese al gestore, ore 10.16: «Una cosa permanente». La cancellazione è stata fatta, ma da remoto: quindi gli hard disk saranno recuperabili. L'attico viene posto sotto sequestro.

 

13 ottobre.
Gli inquirenti terminano la perquisizione e recuperano anche lenzuola, federe e asciugamani. Intanto A. viene dimessa con una prognosi di 28 giorni. L'indagine è già partita d'ufficio, ma lei presenta querela. La sua percussiva cerchia di amici - che non la lascerà sola un momento, mai - arriva al giovane avvocato Saverio Macrì (classe 1988) che conosce per varie ragioni. Il padre è un conosciuto «dentista dei vip», inoltre Saverio difese l'ex Miss Italia Carlotta Maggiorana e possiede quote di un locale riaperto sei anni prima, il «55 Milano» (ex Royalto) oltre a essere un ex calciatore professionista che però è riuscito a laurearsi a pieni voti. Lavora nello studio del più navigato 50enne Luca Procaccini, che si è fatto le ossa con l'ex presidente della Camera Penale di Milano. Il primo incontro tra la vittima e i legali è una tragedia: una parola e un pianto, un'altra parola e un pianto. Le dicono di prendersi il suo tempo, di non sentirsi obbligata a firmare con loro. Lei si ripresenta l'indomani e, anzitutto, dice che vorrebbe una «pena esemplare». E loro non aspettavano altro. Ma la priorità va a lei: contattano subito un team di psichiatri forensi più una nota criminologa (vera, non televisiva) che presto dirà: «È il caso più provante e inimmaginabile che io abbia affrontato. La strada del recupero sarà molto lunga». Anche gli altri specialisti parlano di «trauma spaventoso».

Dopo qualche giorno, Danny Leali incontra Genovese che riferisce del casino e dell'appartamento sequestrato: ma non entra nei dettagli. Leali sapeva che la ragazza era finita in ospedale, e immaginava che magari si fossero drogati in una notte di sesso estremo. I due si incontrano ancora, giorni dopo, e Genovese chiede di contattare A. per favorire un incontro tra gli avvocati, e aggiunge di riferire - sì - che era innamorato di lei. In effetti, in data imprecisata, ci sarà uno scambio di messaggi vocali tra Leali e la ragazza. Lui dirà che aveva solo un ruolo di organizzatore della Milano notturna, e che certo, c'era la droga, la prendevano tutti, lui però non era certo uno spacciatore o un procuratore di ragazze. Lei parrà credergli, poi gli dirà, piangendo: «Ho paura di chiunque, ho paura di mia madre, di qualsiasi persona». Il luogo comune che «tutti usassero cocaina», a Milano, sarà sempre contestato dall'avvocato Macrì: «Io ho quote in locali notturni, sono giovane, ho fatto il calciatore, sono stato anche a Ibiza, ho conosciuto anche Leali, eppure non ci crederete: ma io la coca non l'ho neanche mai vista. Mai». «È sbagliato», sottolinea, «dire che tutti sapevano o la usavano». «Una cosa che mi ha dato dei dubbi», dirà invece Leali in un'intervista, «è che dopo aver lasciato l'ospedale lei era già di nuovo per locali e feste». La ragazza negherà, ma è indubbio che nei giorni successivi lei posterà delle foto forse inadatte - diciamo - e sarà presente sui social: è lì che apprende, legge, soprattutto non si capacita che una parte dell'opinione pubblica giudichi, e dica che l'ambiente era quello che era, che chi va al mulino s' infarina. I legali glielo dicono: chiudi i profili social, lascia perdere, devi curarti. Ma lei è incazzata, chiede ai legali di andare in tv a difenderla. Loro ci vanno. «La mia cliente è una bambina di 18 anni», dirà Macrì, «e ha una personalità non ancora strutturata».

15 ottobre.
In procura si presenta una teste giovanissima, M., che in luglio era stata ospite di Genovese a Ibiza, a «villa Lolita», dove turnavano un sacco di ragazze ed era tutto pagato. Racconta di feste, droghe gratuite sinché «mi invitarono a continuare a pippare nella stanza del capo da quando sono entrata in camera e ho tirato una striscia rosa, non ricordo più nulla al risveglio il mio top era strappato e non avevo più reggiseno né scarpe, avevo le gambe piene di lividi e un gran male ai polsi». Lo stesso schema. «Danny Leali ci aveva messo in guardia sul comportamento di Genovese, dicendo che faceva cose strane, girava voce che mettesse roba nei bicchieri», mi disse pure che «Alberto esagera, ma che io non ero una bambinetta sprovveduta, e pertanto non mi sarei dovuta mettere in una situazione in cui non volevo stare Tra le voci c'era che Genovese mettesse cocaina o ketamina analmente alle ragazze, in modo da stordirle immediatamente».

 

28 ottobre.
I filmati delle telecamere sono a disposizione dei magistrati.

5 novembre.
L'attico di Genovese viene perquisito minuziosamente: trovano fascette per legare, palette per colpire o sculacciare, molte fruste, manette, vibratori di tutte dimensioni, cravatte da usare come corde. In cassaforte ci sono 20 grammi di cocaina, 8,4 grammi di coca rosa (da soli costerebbero 4200 euro) più una fiala con scritto «Cookies gusto gorilla blue» (che sarebbe un hashish con elevato principio attivo) che contiene un liquido trasparente: è il Ghb, la cosiddetta droga dello stupro.

6 novembre.
Genovese, per telefono, dice alla madre che sarebbe partito per Amsterdam e poi per il Sudamerica col suo jet privato. Nello stesso giorno sollecita il rilascio del suo passaporto e cerca di capire se abbiano sequestrato anche quello della sua fidanzata o ex fidanzata, Sarah Borruso. Si prospetta un classico pericolo di fuga. Quel giorno stesso viene arrestato per violenza sessuale, sequestro di persona, cessione di droga alias spaccio, lesioni gravi e disturbo della quiete pubblica. I suoi legali, con certo senso dell'umorismo, sosterranno che l'indagato non voleva fuggire, e che a provarlo c'era che quel giorno aveva un appuntamento per un operazione di trapianto dei capelli. Davanti ai magistrati, Genovese piange, si dispera e spiega di essere dipendente dalla cocaina: «Ogni volta ho allucinazioni e non ho più la percezione del limite tra legalità e illegalità, ho bisogno di essere curato, anche se mi sento una persona intimamente sana». Parentesi tecnica: la cocaina non dà dipendenza fisica, ma solo psichica; non esiste una cura intesa come «disintossicazione» da cocaina.

28 novembre.
I legali di lei, per tutto il mese, si sono ammazzati di comparsate televisive. Venerdì, il 27, A. ha voluto incontrarli personalmente per ringraziarli di tutto quello che stavano facendo, anche se lei in apparenza non ha cambiato il suo stile di vita. Ma sabato 28, in un ristorante del centro, c'è uno strano pranzo. E' un pranzo vero, nonostante il lockdown lo proibisca: e ci sono, oltre alle ostriche, anche la ragazza - sempre scortata da qualche amico/autista - e persone variamente legate a Genovese e all'avvocato milanese Luigi Liguori.

29 novembre.
L'avvocato Macrì sta per andare in onda su La7, in un talkshow serale, ma riceve una chiamata dalla ragazza: «Vorrei che non andassi in onda, che non si parlasse più di me». Ora vuole tenere un profilo basso: il contrario di quanto aveva detto in precedenza. Forse è cambiato qualcosa.

 



30 novembre, lunedì. L'avvocato Macrì, ignaro di pranzi o altro, accompagna la ragazza da un medico legale in Toscana, che la trova in condizioni da ricovero. Al ritorno, lei va dall'avvocato Luigi Liguori e lo nomina avvocato principale: gli altri due rimarranno sostituti d'udienza. La ragazza fa anche una rapida chiamata a Luca Procaccini per avvertirlo: ma lui, proprio in quel momento, sta vivendo una tragedia - sua moglie è grave in ospedale - e neanche capisce, non realizza.

1° dicembre.
L'avvocato Macrì, sempre ignaro, accompagna la ragazza in una clinica di Parma dove dovrebbero curarla e allontanarla dal famoso stile di vita (che poi sarebbero le droghe) ma lei in clinica resiste tre ore in tutto. Chiama Macrì, e gli dice di tornare subito a riprenderla, e che sennò sarebbero venuti altri.

2 e 3 dicembre.
Macrì apprende dai giornali del nuovo avvocato ufficiale, Liguori. Procaccini telefona a Liguori che incappa in una serie di gaffe e probabili scorrettezze. Non ha avvertito i colleghi del cambio. Non si è sincerato che fossero stati pagati. Inoltre, con loro, al telefono, s' inventa di essere «avvocato di famiglia» ma è subito smentito dal padre della ragazza. Procaccini e Macrì prendono tempo: non hanno ancora idea se Liguori abbia una strategia, né quale.

4 dicembre.
La trasmissione Quarto Grado (Mediaset) parla del pranzo del sabato precedente. I due legali trasaliscono. E' un pranzo in cui c'era la ragazza con delle persone legate a Genovese e all'avvocato Liguori. 5 dicembre. I due, con un rumoroso comunicato, si dimettono dall'incarico assieme a tutto il team medico. Scoppia un moderato casino mediatico, con l'avvocato Liguori che del pranzo non vuole saperne: «La ragazza si è presentata da me spontaneamente». Ci credono tutti.

14 dicembre.
Durante una trasmissione del mattino, dopo che l'avvocato Liguori ha tacciato di «inesperienza» il collega Macrì, l'avvocato Anna Bernardini De Pace si lascia andare: «Ci sono due linee difensive che possono riguardare qualsiasi crimine: una è trattare il risarcimento prima del processo, un'altra è trattarlo dopo. Non c'entra l'esperienza: chi cerca un risarcimento prima, in genere, vuole andare in difesa del criminale, chi invece lo vuole dopo cerca la massima sanzione per il crimine. È chiaro che un criminale ricco, la vittima, cerca di risarcirla prima».
 

15 dicembre.
La ragazza, regolarmente accompagnata, rilascia un'intervista al Corriere della Sera nello studio di Luigi Liguori: «Volevo un professionista esperto e stimato. Non ci sono trattative per un risarcimento vorrei che la gente parlasse meno di tutto questo». E' la nuova linea.

17 dicembre.
"Libero" incontra gli ex legali della ragazza, Procaccini e Macrì. «Noi abbiamo tentato un percorso terapeutico, ma lei non era contenta. Prima ha chiesto che ci battessimo per una pena esemplare, poi d'un tratto il cambio d'avvocato e il silenzio-stampa, interrotto solo perché le nostre dimissioni hanno fatto casino. Noi volevamo andare a processo e basta: Genovese è uno che non ha neanche chiesto scusa, dovevamo metterci a dialogare con lui? Forse qualcuno ha pensato che un punto d'accordo, con noi, sarebbe stato più difficile, o impossibile. Un risarcimento preventivo, ricordiamo, determina il diritto ad uno sconto di pena considerevole: poi ci sono le attenuanti, le esimenti eccetera». Procaccini e Macrì, alla fine, non sono stati neanche pagati: hanno anticipato tutte le spese, anche per le cure rifiutate. Eppure lo sanno che il denaro muove tutto. E sanno che, forse, andrà così anche questa volta. 

(La prima puntata è stata pubblicata su Libero il 24 dicembre 2020) 

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