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Antonio Catricalà, l'ipotesi sul suicidio: "Depresso perché malato", l'indiscrezione sul gesto estremo

 Antonio Catricalà

Giordano Tedoldi
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Ho abitato alcuni anni in via Antonio Bertoloni, nella parte bella del quartiere romano dei Parioli (a differenza di quel che si crede, ha angoli più squallidi della peggiore periferia), un'infilata di palazzine eleganti, villini, ambasciate, cliniche di lusso protetti da folte siepi, e costeggiati però sui marciapiedi dall'inevitabile bombardamento di cacche di cani che i pariolini, o i loro domestici filippini, sono particolarmente distratti a raccogliere. È sul balcone di un appartamento della bella, placida via Bertoloni che alle 9 e 10 di ieri mattina è stato trovato, dalla moglie, il corpo senza vita del grand commis (usiamo l'espressione senza alcuna ironia, nel senso letterale) Antonio Catricalà, 69 anni, laureato a ventidue anni in giurisprudenza, magistrato a ventiquattro, un curriculum ininterrotto di incarichi prestigiosi, ex garante dell'Antitrust, ex sottosegretario o viceministro in tre governi (Berlusconi, Monti, Letta) e che, solo il 18 febbraio, aveva ricevuto l'ultima nomina, presidente dell'Istituto Grandi Infrastrutture (IGI). Insomma un uomo di successo, stimato, il cui nome circolava sempre tra i candidati a posizioni apicali (anche recentemente con la formazione del governo Draghi), e perciò la domanda è inevitabile: perché ieri mattina, si è alzato, è uscito sul balcone della sua casa al primo piano ai Parioli, la parte bella dei Parioli, e si è sparato un colpo alla testa?

 

 

 

Il suicidio ha tante forme, alcune sono quasi rituali, e richiamano, grosso modo, specifici problemi. Non che si possa generalizzare, ma spararsi alla testa è qualcosa di diverso dall'appendere una corda a una trave del soffitto e lasciarsi spenzolare. Quest' ultima è più una cosa da scrittori falliti, da artisti depressi. Spararsi al cuore è proprio di certe personalità fragili, dipendenti, spesso molto giovani. Il colpo alla testa manda un segnale diverso. Ma c'è chi si spinge più in là. Dagospia avanza un'ipotesi, tanto più enigmatica perché non vengono forniti altri dettagli: Catricalà aveva un cancro. Sul Corriere della Sera, invece, si legge che la moglie avrebbe parlato agli inquirenti di un «grave stato depressivo». Due ipotesi, quella del male grave e della depressione, che non si escludono a vicenda. C'è un'indagine in corso, c'è la certezza che Catricalà si sia sparato alla tempia con una Smith&Wesson calibro 38 regolarmente detenuta. Ci saranno, d'altro canto, anche i soliti complottisti che immagineranno che l'uomo non si è suicidato, ma è stato fatto fuori da chissà quali oscuri poteri. Cose che sappiamo.

 

 

 

Ma lasciamo da parte le fantasie cospiratorie e cerchiamo di capirci qualcosa sulla base delle voci e degli indizi più plausibili, se non altro perché, ancora adesso mentre scrivo, non sono stati smentiti: una diagnosi di cancro, la grave depressione. Sappiamo tutti, per esperienza indiretta o, disgraziatamente, a volte, diretta, che mostro spaventoso sia il tumore. Colpisce tutti, falliti e potenti, persone dallo stile di vita disordinato e eccessivo come quelle dalla condotta sana e ascetica. Quando si riceve una diagnosi di cancro, inutile essere ipocriti, suona per tutti come una condanna a morte. Da quel momento, ogni giorno di vita è un giorno guadagnato, strappato alla morte con le unghie e con i denti.

 

 

 

Ma perché lottare, se a volte, in casi particolarmente maligni, la fine è certa? Perché fare la chemioterapia, sottoporsi a cure dagli effetti collaterali pesantissimi, vivere l'angoscia delle analisi periodiche per vedere se il bastardo si è ritirato o è avanzato disseminandosi nel proprio corpo e aggredendo altri organi, perché patire le sofferenze proprie e dei propri cari, se poi si sa che, settimana più, settimana meno, il maledetto vincerà comunque? C'è un detto di Seneca che dice: il Fato conduce i volenti, i nolenti li trascina. È questo scontro con il destino, incarnato da un male incurabile, che ha sconvolto la mente di Catricalà e l'ha portato a spararsi alla tempia? Invece di essere trascinato alla morte, sapendo bene che il suo giorno era segnato, ha voluto anticiparla, sul terrazzo del suo appartamento dei Parioli. Affacciato sulle palazzine dalle facciate ornate, i villini, le ambasciate, le cacche dei cani, la quiete mattutina di un quartiere che, nella sua sonnolenta un po' polverosa nobiltà, non avrà battuto ciglio per lo sparo. Come faccio a dirlo? L'ho detto, ci ho abitato, lì la morte avviene sempre con discrezione, anche perché non si distingue granché dalla vita. 

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