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Mose e dintorni, la lezione al Sud: ecco perché le grandi opere servono

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Iuri Maria Prado
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È difficile, vedendo quel che succede in questi giorni nel Sud del nostro Paese, in Puglia, in Calabria, in Sicilia, non pensare a quel che diceva il principe Salina al piccolo piemontese che lo voleva senatore del Regno per rappresentare a Roma la voce di quella terra «con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire». Vedendo le devastazioni di Barcellona Pozzo di Gotto, di Milazzo, viene proprio in mente quella requisitoria del Gattopardo: «...e dopo ancora piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete».

È incredibile che non sia molto diverso da quel che accade in quelle terre dopo più di un secolo e mezzo, con la differenza che sono incomparabili gli strumenti e i presidi che adesso avremmo a disposizione per mettere in relativa sicurezza le cose e le persone esposte alla violenza certo non imponderabile di quei rovesci.

Né è questione di soldi, divorati da sempre in quantità mostruose per mantenere così com' è l'infinito latifondo meridionale, con le foreste di forestali e gli eserciti dei dipendenti pubblici al posto dei campieri, nell'idea pre-industriale che le realizzazioni infrastrutturali, le reti dei trasporti, l'investimento tecnologico debbano essere recessivi rispetto a un'altra specie di pioggia, quella dei sussidi e delle provvigioni che lasciano poveri quelli che le ricevono e impoveriscono quelli che le finanziano.

Al Nord non piove meno, anzi, e anche al Nord i disastri accadono. Ma non sono paragonabili gli effetti del maltempo quassù rispetto alle devastazioni invece ordinarie nel meridione d'Italia, ed è pressoché certo che una Venezia sicula o calabrese non sarebbe stata protetta da nessun Mose.

Anche le polemiche a proposito del ponte sullo Stretto appartengono al medesimo rango di lamentazione che fa finta di insistere su altre priorità e poi precipita nel solito ricettario di prebende e diritti acquisiti da opporre al l'intendimento predatorio dell'affarismo capitalista: lo stesso che porta laggiù un pacco di miliardi per far rinascere Taranto e poi scappa a gambe levate quando capisce l'andazzo, vale a dire il bel dispositivo economico-industriale che si affida al sequestro dei cantieri e alla joint venture coatta con le procure della Repubblica. 

La realtà è che va bene a troppi un'amministrazione pubblica prima istigata a largire pensioni di invalidità non sempre genuine e a sussidiare un enorme organismo di inefficienza per assenza non perché ha mancato di consolidare un declivio ma perché non dà fuori l'ennesima prebenda, l'ennesima straordinaria contribuzione posta a contribuire al mantenimento dell'ordinario sfacelo improduttivo e parassitario. Va bene a troppi un potere pubblico inadempiente nel costruire e realizzare opere dove occorrerebbe e munifico nel rimediare alle proprie inerzie con un miserabilismo risarcitorio che incolpa la fatalità della pioggia e del vento. Va bene a troppi lo Stato dell'economia stracciona, che vale anche la pena di un alluvione se poi stacca l'assegno nell'attesa della prossima.

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