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Sandro Pertini, nella sua città la guerra non è mai finita

Bruna Magi
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Difficile credere che il 25 aprile sia solo la vittoria della Resistenza sul nazifascismo. È la data della fine di una guerra civile. E lo dico con particolare convinzione, perché la mia famiglia fu divisa in due come molte altre, una lotta fratricida di cui ricordo i racconti in casa: un cugino federale, inseguito dai partigiani, fu lasciato morire dissanguato a pochi metri dalla casa di campagna di mio nonno. Orrori del genere si verificarono in molte famiglie. L’eco di una guerra civile forse mai spenta del tutto in una città, Savona, quella dove sono nata, purpurea medaglia d’oro della Resistenza, dove l’aggressività verso chi in politica la pensa diversamente non si è mai spenta del tutto. E questo anche se ho avuto uno zio membro del Cln e prefetto della Liberazione.

 

 

 

Un clima dovuto soprattutto al fatto che Savona è la città (anche se in realtà è nato nell’entroterra, nel piccolo comune di Stella San Giovanni) del presidente padre della Patria e nonno di tutti gli italiani, Sandro Pertini. Dove è soprattutto vietato narrare un’aneddotica (reale) sulla sua vita: ad esempio ricordare che, dopo il 25 aprile, Sandro Pertini, trionfante reduce da Milano, dove non impedì l’orrore di Piazzale Loreto, in Liguria non mosse in dito per fermare sanguinose vendette personali che non c’entravano nulla con il fascismo. Preludio alla futura grazia concessa al boia di Porzus, stragista dei “partigiani bianchi”. Ne parlai con lo zio molti anni dopo, chiedendogli perché, da prefetto, non aveva cercato di fermare certi partigiani, mi rispose che non aveva avuto alcun potere per farlo. E Giampaolo Pansa, quando usci Il sangue dei vinti, mi confermò che la Liguria fu peggio del Triangolo rosso emiliano.

Di Alessandro Pertini detto Sandro, ancora oggi incuriosiscono molte cose finite nel limbo: discutibile il suo rapporto con il maresciallo Tito, responsabile delle foibe e della diaspora degli italiani, nominato cavaliere della nostra Repubblica. Dopo la liberazione Sandro Pertini aveva avviato un commercio di frigoriferi in Jugoslavia insieme con l’avvocato Gerolamo Isetta, amico fraterno che gli era stato molto vicino quando era detenuto a Ventotene: Pertini era piuttosto narciso, prediligeva abiti di sartoria, e durante la prigionia esigeva da Isetta che gli fossero inviate camicie di seta. Amava gli artisti e della sua collezione di quadri, poi donati dalla vedova Carla Voltolina alla Pinacoteca di Savona, faceva parte anche un ritratto di Tito. Tentai poi un’intervista con la Voltolina: mi rispose che non mi avrebbe raccontato nulla, soprattutto perché sono bionda e prima di lei il “suo Sandro”, così lo definiva, aveva avuto una fidanzata bionda, una farmacista.

 

 

 

In fondo un po’ si somigliavano, Sandro e Carla, nei modi arroganti: quando era tornato, da trionfatore, Pertini aveva raccontato in un discorso ai concittadini, affacciato al balcone del palazzo comunale di Savona, in piazza Sisto IV, che lui avendo molto sofferto tra prigionia e anni di latitanza, necessitava di “carne giovane”. La povera farmacista era ormai troppo invecchiata, mentre il corpo della Voltolina era di certo più sodo. Sandro e Carla erano due duri, e quello era il linguaggio maschilista del tempo, da parte di un partigiano vincente (canzone di Toto Cutugno) lanciato verso il futuro trono di presidente della Repubblica. La Voltolina soffriva di una grande gelosia nei confronti della tradita e abbandonata, tanto che fu lei a vietare la messa in onda di un film sulla vita del presidente, Il giovane Pertini, interpretato da un allora quasi sconosciuto Maurizio Crozza, perché vi appariva la poveretta quale amore giovanile di Sandro. Che c’entra questo con un’ipotetica, forse impossibile riconciliazione nazionale? C’entra, perché dimostra che della sinistra non è concesso rivelare nessuna verità, lesa maestà comunque, mentre contro la destra puoi sparare qualsiasi ignominia.

 

 

 

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